Arriva finalmente in porto, dopo circa quattro anni, il primo album solista di John Garcia. Di questo lavoro o ‘progetto’ si parla infatti da quando il chico latino si è rifatto vivo sui palchi portando in giro in varie salse il vecchio repertorio dei Kyuss. Tutta la faccenda, come probabilmente già sapete, si è poi evoluta in una serie infinita di polemiche e beghe legali e in un album ironicamente chiamato Peace a nome Vista Chino. Chiuse le diatribe e fatta depositare la polvere si può affermare tranquillamente che quell’album aveva come principale difetto quello di essere uscito sotto l’ingombrante ombra dei Kyuss. Porsi come eredità diretta di una delle poche band veramente importanti degli ultimi venti anni è stato in primo luogo un errore di comunicazione, ha significato partire con un handicap di dieci punti ed esporsi ad una serie di critiche prevenute quanto inevitabili, perché i fanatici del rock ‘n’ roll quando gli tocchi i totem personali diventano gente davvero intrattabile. Peace era un album concettualmente sbagliato ma giusto nei contenuti. Sbagliato perché frutto di una reunion monca e priva del pezzo grosso, allo stesso modo era giusto perché zeppo di pezzi ottimi e con quelli i Vista Chino avrebbero potuto ambire ad essere qualcosa di più di una cover band semi-ufficiale.
John Garcia (l’album) ribalta questo schema, è meno derivativo nel sound ma anche meno solido in fase di scrittura; punta quasi esclusivamente sull’impatto lasciando in disparte tutto l’aspetto lisergico della questione. Questo lascia un diffuso senso di incompiutezza, caratteristica peraltro comune a pressoché tutte le sue uscite post-Kyuss (Unida compresi, nonostante i picchi altissimi). Al riguardo, infatti, con il tempo mi sono fatto l’idea che il chicano abbia bisogno di qualcuno di personalità che gli dia la direzione e lo tenga a bada, altrimenti corre il rischio di perdersi per poi compensare facendo un po’ lo sborone (termine tecnico che qui sta per “stile canoro eccessivamente impetuoso”).
Pur essendo senza dubbio uno dei migliori vocalist della propria generazione, è come se mancasse di autosufficienza. Non sarebbe né il primo né l’ultimo peraltro (al volo mi viene in mente Chris Cornell) e comunque si sa che le band r’n’r funzionano su alchimie precarie difficilmente decifrabili e/o riproducibili. Questo è certamente un peccato perché, quando imbrocca il pezzo, manda la gente a casa di corsa: penso a 5000 Miles e a quel sound originale che ti riporta diretto al 1995, a un periodo in cui parlare di suono desertico era qualcosa che aveva ancora senso. Lo confesso, è roba che mi fa davvero effetto, per me sono spilli nel cuore. Sensazioni simili affiorano sporadicamente nel corso dell’ascolto, notevole pure la conclusiva Her Bullets’ Energy in cui alla chitarra ci sta addirittura Robbie Krieger dei Doors (uno dei chitarristi più personali e sottovalutati di sempre), nei cui studios l’album è stato registrato. In generale, però, c’è qualcosa di indefinibile che non sembra funzionare del tutto, svariati pezzi non riescono a superare la soglia del semplice ‘gradevole’ o ‘carino’, per non parlare della scelta scriteriata di piazzare in apertura (e scegliere come singolo) quello che forse è il brano peggiore del disco e che, non ho letto bene il testo, sembra anche contenere una bambinesca polemica nei confronti di Josh Homme. L’album dà l’impressione di voler essere il riassunto di una carriera e nel fare ciò cerca di far coesistere suoni ed anime di tutte le varie esperienze passate; questo però si traduce in una generica indecisione sulla direzione da prendere e John Garcia finisce per suonare come una versione radio friendly di se stesso e, se si porta un nome così, non è che sia proprio un complimentone.
PS: Tra un paio di mesi Mr. John Garcia sarà in Italia per un po’ di date. Tutte queste lamentele da talebani verranno messe da parte e ci si recherà in blocco a rendere un doveroso omaggio a un tizio che ha reso le nostre vite molto migliori. Ci si vede sotto agli ampli.