Kamikaze (e altre persone) – Gian Maria Annovi

Creato il 15 febbraio 2013 da Wsf

Danno la loro vita per un ideale più alto, più importante della vita stessa, che così ne è rimpolpata di senso. Li chiamano kamikaze, ma sacrificano la loro vita anche altre persone. Accomunati, gli uni e gli altri, proprio da questo ideale più alto, che sia un scontro di civiltà, che sia Dio, che sia la dura legge del mercato globale, che sia una cartella esattoriale. Al centro è il corpo, in alto è l’ideale, in basso è l’essere umano, intorno, tutti noi con la bocca ripiena di parole preconfezionate, cavate fuori da un antico libro sacro o dal quotidiano dell’altro giorno, ripulite e luccicanti per dare un senso agli inspiegabili eventi dell’oggi. L’oggi è il ventunesimo secolo, “uomini che precipitano / (così inizia un secolo)”, e così inizia un libro, Kamikaze (e altre persone) di Gian Maria Annovi (Transeuropa, collana Inaudita, 2010).

Il linguaggio poetico si dà decomposto, frammentato, difficile da rimettere insieme, proprio come il corpo di un uomo saltato in aria. E così diventa estremamente facile – una tentazione identitaria – riempire quegli spazi mancanti, i brandelli oramai scomparsi, con parole astratte, sradicate del tutto dai corpi stessi che le hanno create. Restano come macchie di Rorschach alle quali ogni gruppo – sociale, religioso, politico – è libero di attribuire il senso che crede. Resta una poesia sfilacciata, sottile, che lega come ragnatela il World Trade Center e la Cecenia e la Striscia di Gaza e Piazza Gaetano Alimonda. Resta una voce rotta, distrutta anch’essa, dal dolore, una voce che si fa nostra voce e che tenta di dire, ci tenta di dire, avvisare, mettere in guardia. Ma non ha alcuna pretesa di spiegare, di saturare il vuoto che ci annienta tutti. Questa voce, la voce di Annovi, sa che la nostra lingua, come tutte le altre lingue del mondo, non ha più la forza di spiegare, non è più capace di scrivere i nostri racconti individuali tra la nascita e la morte: “la lingua-malanno che passa / (passeremo)”.

Restano queste parole, poesie generazionali, slanci atemporali tra laghi di silenzio privato.

disponimi cose nel corpo
che esplodano:

riempimi il vuoto delle
palpebre

(che il tuo respiro è un timer)

quel ticchettio che hai dentro

che prima o poi si ferma

c’è cena e cibo
sui tavoli che solleva

pensiero che gravita
acceso
al centro del corridoio

tu sei la porcellana
cinese che si frantuma

la donna cecena
che sgrava tritolo

parla la lingua che non conosci
che non comprendi ma ha
senso

(secondino e persona)

tu corpo-ostaggio
ostinato ostacolo a te stesso

mal mediato da media
che di fatto trasmettono

il tuo interno conflitto

la senti tra i cadaveri
tra i labbri spaccati

fare strage di nomi
parola imbottita di chiodi e
tritolo

che stritola il coro degli assedi

(sommari esecuzione ed
atti corporali)

la lingua (ti dico) non muore

ma tramortisce

torneremo a chiedere il conto
persona secondo persona
al tetro stivale che ci scalcia
in una storia veramente poco
necessaria per la donna e
per l’uomo

noi che parliamo da fosse
comuni con respiro sepolto
nelle narici
nelle fosse nasali
con la torba nel cavo orale

con le ossa tutte abbracciate

con i triangoli al petto sgualciti

il sogno della lingua:

assurdo animale
o persona
che non si estingua

(canguro in fiamme)

bestia che fa segni
che fa salti e dolore

senza fare parole

Chiappanuvoli


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