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L’Agostoni, la terra della Brianza e quello scarpino stretto.

Creato il 22 agosto 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Le mattine di agosto in Brianza sono silenziose, si portano con sé il fresco della notte passata tra i grilli e le stelle. Qualche volta, per chi sa ascoltare, si può sentire anche il canto di un gallo lontano, quasi un ultimo baluardo di quella vita da paesani che si faceva qui, una volta. Quando le mani conoscevano la durezza di questa terra scura. Di questa terra fa parte anche la Coppa Agostoni che ne ha capito l’anima.

Rombano gli sciami di motorini che, per una volta, si tengono in sella ragazzi assonnati e mattinieri dopo una sera di impennate e drum arrotolati con la schiena contro le saracinesche chiuse. Brulicano i vacanzieri mancati attorno alle rotonde, sui princìpi delle salite, ai lati incolti di una curva.

Alla fine l’ Agostoni è un po’ come una grande fiera di paese dove la gente continua a parlare dialetto, nonostante vengano a correrla da tutto il mondo. Si aspetta sotto il sole che arrivino i pullman, si guardano le biciclette che attendono lucide di essere usate e con occhi di bambini più o meno cresciuti si comincia a sentire una specie di agitazione che a parole non può essere spiegata. Solo vissuta.

Partono e sembra una festa. Ma il ciclismo, in fondo, forse non lo è: è un viaggio all’ultimo respiro, dove essere primi, stare davanti, fare ritmo, non è una goliardata.

Sul Lissolo le ultime curve, quelle che portano su, al “Tetto della Brianza”, sono traboccanti di gente alla quale non importa se fa troppo caldo, se le chiazze di ombra sono già quasi tutte occupate: essere lì è quello che conta. Ragazzi con gli oakley e il casco del motorino in mano che discutono con signori in canottiera che di Agostoni ne hanno viste, oh, se ne hanno viste! Ciclisti che continuano a salire: non hanno il numerino sulla schiena ma sognano di averlo, di essere in corsa pure loro. D’altronde una radiolina che gracchia tra le robinie che crescono come matte in questi boschi, aiuta a creare un’atmosfera televisiva su una salita che normalmente è fuori dal mondo. E l’elicottero dice che sono vicini, che stanno salendo. Qualcuno telefona: “Mamma, guardami in televisione!”. Qualcuno parla, ride a voce alta, gesticola: uno stadio, stretto tra l’asfalto e i rovi.

Il silenzio, le moto, la sirena.

Fabio Aru, scalatore purissimo, non ha tradito il Lissolo: è passato per primo, al Gran Premio della Montagna di questo angolo di Brianza che tra sole e ombra, nasconde salite cattive, curve impietose, che fanno stare piegati sulla bicicletta. Poi dall’ultima svolta arrivano gli altri.

Dai che è finita” dice uno. Lo dicono tanti. Lo ripetono a tutti quelli che passano. E’ la tenerezza, la mano rude e pietosa assieme di chi sa che, quando si fa fatica, si vuole a tutti i costi capire quando mai smetterà. Di chi sa che quando si è dietro, quando si vede anche solo una schiena davanti a sè, la pedalata diventa sempre un po’ più legnosa.

Dai che è finita”. Sì, ma se la sono fatta tutta. E i denti stretti, il sudore, le gambe rotte se le sentiranno fino a stasera. Fino a domani.

Salgono, alcuni in gruppetti, altri da soli.

Butta giù di due! Butta giù di due!” urla qualcun altro. Forse il ciclista era russo o forse no. Non importa: il ciclismo è uno di quegli sport dove il legame tifoso-corridore è così forte che ci si capisce sempre. La fatica, sì: vangare e pedalare sono due mestieri che sono fatti più di gesti che di parole.

E mentre al Lissolo passano le ultime ammiraglie, il popolo del ciclismo ritorna alla sua vita lentamente, aspetta il “fine corsa” per dirsi che sì, tutto è finito veramente. Si gusta gli ultimi corridori che arrivano come si assaporano le ultime tre dita di buon vino rimasto nel bicchiere: ci sono ancora applausi, incoraggiamenti da fare. Poi passa silenziosa l’automobile che segna la fine della corsa ed è un po’ come quando la nonna diceva: “tutte le feste le porta via”. Tutto è come prima e quella strana alchimia invisibile che il ciclismo si porta con sé se ne andata ancora, un’altra volta. Non è uno sport di gente che sta ferma: non sta mai in un posto per troppo tempo. Ha bisogno di andare, la bicicletta. Quei minuti devono bastare, anche agli amanti più smaniosi. Guardo una bambina che rigira tra le mani, contenta, una borraccia: è questo l’importante, che chi amiamo lasci qualcosa per farci capire che tornerà.

agostoni 2013 189

Gli ultimi chilometri li guardo a casa, dopo che tutti già sanno il vincitore. So che su quella linea passerà per primo Filippo Pozzato ma seguo lo stesso l’azione di Patrick Facchini e di Davide Mucelli che costruiscono il loro sogno sfrecciando sotto il gonfiabile dell’ultimo chilometro.

Facchini si stringe lo scarpino. E basta questo gesto a dirmi tutto, a dirmi che l’umanità vive perché sogna e spera, perché crede che due gambe che vogliono vincere siano più forti di un gruppo in rimonta. Sette secondi e un rettilineo che non finisce mai. Il traguardo e gli altri che fiatano sul collo, inesorabili. Un secondo: le schiene, i numeri, il resto. Eppure, per me, quello scarpino conta più di tutto, anche più delle braccia alzate: significa credere in sé stessi e questo, nel ciclismo, serve quanto le gambe. E se queste ultime tradiscono, allora bisogna dirsi che, alla fine, la bicicletta è così, come questa terra qua. E’ dura, difficile da lavorare: la ami e la odi assieme. Eppure è la tua casa, è dove è il tuo cuore.



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