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L’altro

Creato il 05 marzo 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Il piccolo isolotto roccioso emerge lugubre dall’acqua immota, mentre il riflesso degli speroni di pietra affoga in un quieto mare scuro. La vita, qui, è ignorata dai colori. In questa landa desolata regna soltanto il silenzio. Lo sguardo di chi osserva è catturato dal fitto bosco di cipressi che, posti al centro del quadro, dominano la scena dipanandosi in un frastagliato neo bruno, nero come una macchia d’inchiostro: la risultanza delle fatiche di un ragazzino maldestro alle prese con un vecchio calamaio. Si scorge, sulla sinistra della tela, una risibile barca a remi, sulla quale una figura indistinta, luccicante e totalmente bianca accompagna una bara nell’ultimo viaggio.

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Mia moglie Claudia, seduta, incollata e saldata al divano, e suo malgrado proprio sotto alla fedele riproduzione de L’isola dei morti, dondola ossessivamente tenendo strette a sé le due gemelle. La bocca, la sua, riarsa dalla sete, si spalanca di quando in quando per pigolare qualche frase sconnessa, mirata a placare il fuoco che divampa nel mio animo. Ma quando sanguini a lungo il dolore ed il dubbio mutano in odio corrodendoti le viscere, ed è in quel preciso istante che sai di poter cambiare il mondo. Questa è la lezione che ho imparato. E lei, Claudia, è stata una vera maestra.

«Manuel, io ti amo, ragiona! Slegaci, fallo per le bambine!». Sposto lo sguardo sulle piccole, pigro. Due involtini rosa avviluppati da spago. Selene e Selina, di sette anni, quattro mesi e otto giorni. Selene e Selina, una coppia identica di femmine in miniatura. Selene e Selina, uguali in tutto e per tutto: aspetto, abiti e carattere. Indistinguibili. Mi osservano entrambe da dietro le lacrime, giudicandomi. Ho serrato le finestre, tutte, e chiuso la porta d’ingresso a doppia mandata. Soli, loro ed io. Un confronto diretto con la mia nemesi, contraddittorio che non posso più rimandare. Soli, loro, io e la luce del lampadario.

«Mi scappa la pipì…». Selina frignola, facendo leva sull’amore paterno. «Scappa anche a me!». Selene rincara la dose. «Manuel, ti prego…». Ed ecco Claudia: non c’è che dire, sincronizzate pure nel lamento. Borioso, omaggio le Arpie delle mie terga. Le sciocche, in ogni caso, non possono sfuggirmi. Ho incatenato le Tre Grazie ai braccioli del sofà negando loro il movimento degli arti inferiori. E qualora volessero colpirmi, non mi preoccupa di certo un eventuale lancio di cuscini. Asciugo il sudore dalla fronte, affondando il viso nel fazzoletto, quando lo spiacevole squillo del campanello d’ingresso infrange il momento sacrale. Rigiro tra le mani la vecchia pistola a tamburo. Sei colpi. Ce n’è d’avanzo.

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«Non fiatate!». Mi volto rabbioso e miro alla testa di mia moglie. «Guai a voi!». Aprono le fauci sgranando gli occhioni azzurri. Tre paia d’iridi glaciali che rivelano la reale indole delle mie donne. La stanza tace, adesso. Il corridoio trilla ancora. Acuti intermittenti, cadenzati, vogliosi di sfondarmi i timpani. Mi tremano le gambe; un solo passo falso, ora, vanificherebbe i miei progetti. L’attuale è il momento della spiegazione. È l’istante delle risposte. È l’opportunità della redenzione, non la congiuntura del fuori luogo. «Aspettavi qualcuno?» sussurro beffardo, inquadrando Claudia. «Amore mio, a quest’ora? Ma chi vuoi che aspett…». «Non!». La zittisco con l’indice, puntandola aspro. «Non chiamarmi amore!». Balzo svelto sulla mia sposa, tappandole le labbra con il palmo aperto. «Riesci a rendere putrido persino un sentimento così nobile. Non sai nemmeno cosa sia l’amore, tu!». La rivoltella, ferraccio d’antiquariato, preme sulla sua fronte. «Papaahh…». Le gemelle uggiolano all’unisono. «Merda!». Mi ritraggo inviperito. «Merda! Merda!». Il marchio rossastro lasciato dalla sommità della canna del revolver adorna la zucca vuota di Claudia. Una specie di terzo occhio spalancato sul mio universo, finalmente. «Non fiatate!». ripeto perentorio, «Chiunque sia si stancherà».

Reclino il capo sul petto, rimirandomi le scarpe. Ciò che rimane della mia vita è una densa nube di particelle impalpabili. Le osservo distaccato mentre lo spazio si deforma, piegandosi al tocco indulgente del tempo che scorre. Saetto verso la finestra, facendomi scudo della tenda. «Chiunque sia si stancherà» mormoro sfinito. Mulinello la pistola nell’aria soltanto per rimarcare alle mie coinquiline che quello dotato di vantaggio è il sottoscritto, frattanto, scostato un trascurabile lembo di stoffa dal vetro appannato, sorveglio il vialetto di casa: due uomini in divisa sostano oltre il cancello del condominio. Tre piani mi separano dai poliziotti, sempre che lo scampanellio alla porta non ne collochi qualcun altro oltre l’uscio. «Li hai chiamati tu, puttana!». Nuovamente mia moglie mi ha soffiato il ruolo principale. Non mi stupisce: è una sua peculiarità. «Chi-chiamati… chi?» Claudia mugola. «Signor Vignola, è la Polizia, apra! Sappiamo che è in casa!».

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Il sentore d’essere in procinto dello scacco matto, adesso, è una certezza. Muovo il cavallo in un’ulteriore, quanto disperata, mossa. Abbasso la saracinesca ed urlo, urlo con tutto il fiato che ho in gola sparando un colpo alla cieca, colto da stizza cristallina. Il rinculo, seppure lieve, mi spiazza. Non ho grande dimestichezza con le armi e, sincerità per sincerità, le detesto. Questa pistola è solo un trofeo di famiglia. Il tuono sordo mi scoppia nel petto, assordandomi. Il locale muggisce scosso dal tremito ed il proiettile serpeggia per la stanza. Segue una traiettoria fantasiosa. Sibila. E muore con convinzione infilzando uno dei tre cantici della Divina commedia, edizione limitata extra lusso, posti in bella mostra sulla mensola della libreria. Spio la reazione di mia moglie, ben sapendo d’averle inferto, in questo caso, una sberla ben più sgradita di un bossolo in pieno volto. Ora è tutto uno sbraitare. Io che ruggisco con disprezzo il nome del Signore, accostandolo ai peggiori epiteti. Mia moglie che si sgola. Selene e Selina che gridano. E gli agenti, scalpitanti sullo stuoino, che mi intimano di cessare il fuoco.

Sto per essere inghiottito da un buco nero. La disfatta del Re non mi concederebbe di procedere con la tattica prevista. Un piano perfetto sabotato da una scomoda improvvisata. Non voglio, non desidero che finisca così. Inspiro ancora una volta, profondamente, l’aria di casa ricercando l’odore primitivo della serenità, sebbene all’istante le mie narici soccombano al dispiacere. Il ferro della pistola è freddo, mi somiglia. Chiudo gli occhi e stringo nel pugno le redini della vita. La mia.

di Vera Q.

Vera-Q-avatar
Vera Q. è una scribacchina nata, vissuta e vivente. Almeno per ora. (Pardon: grattatina di palle doverosa). E questa è la descrizione che fa di se stessa. Autrice self, nel 2012 pubblica il primo e-book con Amazon: La scatola di cioccolatini di Silvia… (e di altre crudeltà), una raccolta di quattro racconti noir.
Seguono, nel 2013, 2017 A.D. un thriller psicologico ambientato in un futuro tutt’altro che roseo e Io sono morto, un altro thriller, una commedia nera e surreale che inizia dalla fine.
Nel 2014 pubblica L’altro, thriller grottesco che mette a nudo le piccolezze dell’animo umano tessendo nuovi rivoluzionari atti di crudeltà e liberazione. 
Autunnale, fumatrice incallita, gattofila, nottambula, adoratrice di tè e tisane ma, sopra ogni cosa, scrittrice per passione. 
Amante del nero in ogni sua forma, e non solo perché snellisce, va oltremodo fiera del suo personalissimo angolo del kitsch casalingo, dove ninnoli macabri vari ed eventuali hanno il ruolo dei protagonisti.
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