DeLillo è uno dei miei autori preferiti. È uno di quegli autori in grado di osservare la storia per poi raccontarla con passione e consapevolezza, riuscendo a mantenere una distanza considerevole, come se riuscisse, utilizzando le parole, a produrre calore in un luogo freddo. Parole che compongono dialoghi fuori dal comune. Quando leggo DeLillo ho la sensazione di avere di fronte uno spartito musicale, una parola dopo l’altra, come note che danno vita ad un arrangiamento, una narrazione che suona:
Quando tutto è nuovo, il piacere è tutto in superficie. Provava una misteriosa soddisfazione nel dire il suo nome ad alta voce, nell’elencare i colori del suo corpo. Capelli, occhi, mani. LA neve fresca dei suoi seni. Niente sembrava banale. Aveva voglia di stilare liste e classifiche. Cose semplici, essenziali, vere. La sua voce era dolce e intelligente. Gli occhi erano tristi. La mano sinistra ogni tanto tremava. Una donna dalla vita travagliata, il ricordo assillante di un matrimonio fallito, forse, o la morte di un caro amico. Aveva una bocca sensuale. Quando ascoltava buttava leggermente la testa all’indietro. I capelli erano di un normalissimo castano, con qualche traccia di grigio, piccole strisce o lampi, che comparivano e scomparivano a seconda della luce. (Creazione, 1979)
In questi racconti – che vanno dal 1979 al 2011 – quello che colpisce è che, nell’arco di questi anni, DeLillo ha mantenuto quella caratteristica di grande osservatore – e di sublime narratore – di una collettività governata da un potere crudele, dalla violenza e da un grande vuoto animato dalle ossessioni, tipiche delle sue creazioni narrative. I temi a lui cari: Ricerca della salvezza (l’angelo esmeralda), degrado, complessità dell’essere umano (momenti di umanità nella terza guerra mondiale); alienazione (falce e martello), solitudini che si mescolano (la denutrita) e la sensazione perenne di attesa (presenza di fondo in tutta l’opera).
Non portava libri a lezione, mai una traccia di libri di testo o fogli per gli appunti, e i suoi discorsi scombiccherati ci facevano sentire che stavamo diventando quello che vedeva davanti a sé, un’entità amorfa. Eravamo praticamente senza stato. era come se parlasse a un gruppo di detenuti in tute arancioni. Tutto ciò destava la nostra ammirazione. Eravamo nelle Celle, dopotutto. Ci scambiammo uno sguardo, io e lei, timidamente. Ilgauskas si chinò verso il tavolo, con gli occhi che guizzavano di vita neurochimica. Guardò il muro, parlò col muro. (La mezzanotte in Dostoevskij, 2009)
Insomma, DeLillo sa come utilizzare le parole e lo fa molto seriamente, rendendo chiaro e accessibile il loro significato. È talmente bello leggerlo che non vorrei smettere mai e quindi continuo a frequentarlo con parsimonia per avere sempre un DeLillo da ascoltare, anche quando non comporrà più.
Se isoliamo il pensiero randagio, il pensiero transitorio, – disse, – il pensiero la cui origine è insondabile, allora cominciamo a capire che siamo regolarmente squilibrati, quotidianamente pazzi. Ci piacque molto l’idea di essere quotidianamente pazzi. Ci sembrava una cosa molto vera, molto reale. Nel profondo, – disse, – c’è solo un caos indistinto. Abbiamo inventato la logica per mettere in fuga la nostra essenza creaturale. (La mezzanotte di Dostoevskij, 2009)
Sempre il senso di attesa. L’immancabile piacere all’idea di quello che stava per vedere, a prescindere dal titolo, dalla storia, dal regista, e la capacità di eludere lo spettro della delusione. Non c’erano delusioni, mai, né per lui, né per lei. Erano lì per essere avvolti, per essere trascesi. Stava per passare qualcosa, qualcosa che volava e che passando si sarebbe girata a prenderli portandoli via con sé. (La denutrita, 2011)
Tappeto sonoro: Questo genere di atmosfere: