Andrea Tornago
«Nel centro d’Italia, a cento chilometri da Roma c’è una città di 60 mila persone che non esiste più. E a distanza di un anno nessuno ha rimosso nemmeno una maceria». Così l’editore Pietro D’Amore riassume in poche parole l’affaire dell’Aquila: «La città non c’è, e si comincia a dubitare seriamente che mai tornerà».
L'Aquila, chiesa di Paganica
C’è una certa preoccupazione mercoledì alla sede romana della Fnsi, alla presentazione dell’ultima inchiesta sul terremoto. Maria Luisa Busi e il segretario del sindacato dei giornalisti Franco Siddi illustrano L’Aquila 2010. Il miracolo che non c’è (Castelvecchi), reportage dei due giovani giornalisti romani Sabrina Pisu e Alessandro Zardetto che restituisce un quadro inquietante di come il terremoto del 6 aprile 2009 abbia sconvolto la vita degli abitanti dell’Aquila e gli equilibri democratici nel nostro paese.
«Io ho fatto domanda di golpe già tre anni fa, fino ad adesso siamo riusciti solo con la Protezione Civile a evacuare alcune città, stiamo ancora sperimentando» diceva il Berlusconi di Sabina Guzzanti in un famoso sketch tagliato del suo film Draquila: ed è questa la convinzione condivisa da tutti coloro che si sono occupati dell’Aquila, che il terremoto sia stato un evidente salto di qualità, forse una prova generale di operazioni che potrebbero un giorno essere condotte su larga scala, oltre che un laboratorio di comunicazione politica, di gestione dell’informazione e della legislazione d’emergenza.
Il cuore dell’inchiesta, da ieri nelle librerie, riguarda il piano C.a.s.e (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili), grimaldello della strategia governativa che ha trasformato l’Aquila in un terreno di conquista per speculatori e riciclatori di denaro sporco. L’autrice Sabrina Pisu fornisce alcuni dati preoccupanti: i «moduli abitativi» delle new town ospitano meno di 15 mila persone su 67 mila sfollati. Il resto degli aquilani dove sono? Più di 3400 negli alberghi sul mare (al costo di 50 euro al giorno pro capite), 600 persone ancora parcheggiate in modo indecoroso nelle caserme, ma la maggior parte clamorosamente risistemati in garage adiacenti alle vecchie case danneggiate, a rischio di nuovi crolli.
E la sicurezza? Non era l’ossessione che ha permesso alle autorità di chiudere il centro storico della città, di militarizzare l’Aquila e la gestione dei campi, di negare il diritto d’assemblea e il contatto tra gli sfollati e il mondo esterno, levando agli aquilani la dignità e persino il diritto al lutto e alla protesta? Certo, ma niente può resitere al fascino dei 493 milioni di euro stanziati dall’Ue per il terremoto, 350 milioni dei quali è stato utilizzato per il piano C.a.s.e: un piano che è costato il 40 per cento in più del dovuto, fornendo prefabbricati da 3 mila euro al mq, «soluzioni temporanee» secondo la legge europea, ma che resteranno invece le sole case che gli aquilani vedranno per molto tempo. E che dire della millantata ecosostenibilità di queste abitazioni, che non hanno ricevuto una valutazione d’impatto ambientale e che in molti casi non hanno neppure l’allacciamento alla rete fognaria?
L'Aquila tra le macerie
Questi sono solo alcuni dei nodi rivelati dall’inchiesta, insieme alle infiltrazioni mafiose negli appalti gestiti dalla Protezione Civile, all’esclusione totale degli imprenditori aquilani dalla ricostruzione, allo sfacelo dell’Università e dell’economia cittadina (7 mila contratti atipici, 7 milioni di ore di cassa integrazione per 15 mila disoccupati, previsone di incremento del 10 per cento del tasso di disoccupazione, lievitazione spropositata del costo degli affitti per studenti in una città che si reggeva sulla popolazione universitaria), come rivela il il free lance Alessandro Zardetto.
Alla fine prende la parola un libraio aquilano, che ricorda: «il 16 luglio (data in cui scade la sospensione del pagamento di tasse, contributi, mutui per i terremotati) sarà uno spartiacque: noi siamo gente di cuore, gente di montagna. Ma avete mai visto incazzarsi un pastore abruzzese? Quando diventiamo brutti, non ce n’è più per nessuno».