E’ ricco di citazioni, il bel film l’Arbitro di Paolo Zucca. A cominciare dai nomi e dai personaggi: Prospero e Miranda ci rimandano a Shakespeare, mentre lo stesso Prospero (un bravo Benito Urgu), mi ha fatto pensare al grande Borges, la cui Argentina (rappresentata direttamente da un convincente Jacopo Cullin) ci fa pensare, nella pellicola, ai grandi campioni argentini di origine italiana, che ritrovano però in Europa, grazie alle loro eccelse doti calcistiche, quella ricchezza ricercata forse inutilmente nella profonda America della Patagonia; e non mancano neppure le citazioni cinematografiche: magistrale e felliniana quella che ritrae il trionfale corteo dei tifosi dell’Atletico Pabarile che in un tripudio di suoni e di canti, innalzano il principe degli arbitri decaduto, il carismatico Stefano Accorsi, protagonista involontario del loro successo calcistico.
Ma partiamo dall’inizio. La storia, rigorosamente in un bianco e nero ricco di fascinose luci ed ombre, è ambientata in una immaginaria località della Sardegna centrale (forse l’alto oristanese, a giudicare dalla parlata sarda degli abitanti; ma potrebbe essere anche la prima Barbagia, quella esteriore e meno profonda) narra le vicende di una rivalità cenciosa (in senso calcistico) tra due squadre di calcio (l’Atletico Pabarile e il Monte Crastu) che militano nella categoria più infima di quel grande carrozzone di soldi, corruzione e meteorici successi che è il calcio contemporaneo. Questa vicenda principale si intreccia, per riunirsi poi nel finale, con la carriera di un arbitro ambizioso ma alquanto sprovveduto, la cui parabola, nella sua fase discendente, si innesta, come già detto, nel filone principale della storia, quando, ormai principe decaduto del fischietto, viene punito dai suoi superiori e mandato ad arbitrare proprio la finale tra le due squadrette rivali di sempre.
Al di là della narrazione, comunque simpatica e divertente (quasi mai noiosa) il film si presta a diverse chiavi di lettura.
Intanto l’eterna lotta per vivere e la perenne rivalità tra gli uomini qui impersonata tra due squadrette di calcio (ma anche da una faida tra due cugini, entrambi calciatori del Monte Crastu, che durante la surreale partita finali, regoleranno i loro conti in maniera cruenta); e non se volutamente o meno ma qui mi è parso di notare come i montecrastini impersonino in qualche misura la protervia e l’arroganza delle squadre di calcio ricche (di soldi e superbia) contro l’umiltà e la vogli di rivincita delle squadre povere (l’Atletico Pabarilese mi ha fatto ripensare agli incredibili sforzi del Cagliari Calcio che soltanto dopo anni di titanici sforzi riuscì a conquistare lo scudetto, grazie anche all’arbitro Lo Bello che più o meno apertamente, volle ribellarsi allo strapotere delle solite torinesi e milanesi che allora andavano per la maggiore).
Insomma il Calcio come metafora del mondo contemporaneo, dentro al film, per me ci sta tutta; con quel grido viscerale e profondo che consegue ad ogni gol, più comprensibile forse in chi, grazie a quel gol, vede salire la propria quotazione di mercato e il proprio conto in banca, eppure altrettanto, se non addirittura di più. gutturale e liberatorio nei campetti aridi e polverosi della periferia dell’impero calcistico, dove inutilmente si rincorrono la fama e gli onori che solo pochi privilegiati raggiungeranno.
E infine il marcio, la corruzione, il precario equilibrio in cui i vertici gestiscono i destini del Calcio attraverso le designazioni arbitrali.
Ma questo crudo e aperto riferimento alla realtà non toglie niente alla poesia di questa raffinata pellicola.