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Lo abbiamo già scritto all'indomani del primo turno, tocca ribadirlo oggi, dopo i ballottaggi del week end che hanno visto andare alle urne meno della metà degli aventi diritto: di questo passo, l'anno prossimo a votare ci andranno solo i militanti dei partiti, che allora potranno forse gioire delle percentuali, che però rappresenteranno una sparuta minoranza di elettori. E rincuora che Marco Doria, invece di esaltarsi per il suo 60 per cento, si renda conto che a votarlo sia stato un genovese su quattro.
Se i nostri politici hanno a cuore la democrazia, e non solo i loro interessi di bottega, a questo dato devono guardare più che a ogni altro. E devono rimboccarsi le maniche (non solo sui manifesti) per cercare di riportare al voto – e alla partecipazione – quanti più italiani possibile. Come? Forse, innanzitutto, con un gesto di umiltà, guardando con curiosità, anziché con malcelato fastidio, a quel che si muove nella cosiddetta antipolitica.
Si accorgeranno, per esempio, che i "partiti tradizionali" non esistono più. L'unico che mantiene ancora una fisionomia partitica abbastanza netta (nonostante i vari tentativi di renderlo "liquido") è il Pd. Per il resto, quello che fino a pochi mesi fa era il più grande "partito", il Pdl, a queste amministrative si è sciolto come neve al sole. Mentre quello che fino a pochi mesi fa era considerato un fastidioso ma tutto sommato innocuo sommovimento di pancia, il M5S, è oggi accreditato da taluni addirittura al 20 per cento su base nazionale. Qualcosa vorranno pur dire, questi dati.
Per esempio: che c'è voglia di più politica. Perché le appartenenze non bastano più, si guarda a candidati e programmi, e si cambia cavallo molto facilmente se gli uni e gli altri non convincono più. La sconfitta senza appello della Lega lo dimostra. E se questo è un grande pericolo per i partiti, che non possono più contare su zoccoli duri disposti a votarli a prescindere dai contenuti, è una grande occasione per la politica, se solo i partiti se ne rendessero conto.
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