di Paolo Pini, da il Manifesto del 3 gennaio 2014
L’appello “Invertire la rotta” di autorevoli studiosi (Balibar, Burgio, De Cecco, Lunghini, Prosperi, Rossi, Settis, tra gli altri) contro le politiche di austerità in Europa (manifesto 22 dicembre) ha ricevuto un autorevole commento critico da Michele Salvati (Corriere della Sera 29 dicembre). Salvati obietta che l’appello contiene una «mezza verità» perché disconosce che oltre alla mancanza di condizioni soddisfacenti di domanda vi sono altrettante mancanze delle condizioni di offerta; essendo viziato di «mezza verità» non è condivisibile, anzi rischia di essere dannoso, inutile e non educativo.
Questa critica potrebbe essere estesa ai tanti economisti che da anni e con forza crescente sostengono tesi analoghe, ovvero che la crisi manifestatasi prima con il collasso della finanza creativa nel 2008 e poi trasmessasi all’economia reale a livello globale e concentratasi dal 2011 in Europa con la crisi dei debiti sovrani, è stata esacerbata proprio dalle politiche di austerità espansiva che in Europa hanno causato il double dip e frenano l’uscita dalla depressione. Tra questi, Fitoussi, Krugman, Stiglitz ed altri, che criticano la dottrina dell’austerità espansiva ed attribuiscono al consolidamento fiscale praticato in Europa sia la crescita della disoccupazione sia quella dei debiti degli stati nazionali. Naturalmente questi economisti affermano anche altro: le crescenti disuguaglianze risultanti dalle politiche di de-regolazione dei mercati (lavoro e capitali) sono tra i fattori che hanno segnato la compressione dei redditi delle classi/categorie sociali che più di altri sostengono la domanda effettiva. Quindi sempre a carenze strutturali di domanda aggregata si torna, via canali distributivi.
E qui veniamo ai problemi dal lato dell’offerta. Ma proprio su ciò Salvati non dice tutto il vero, semmai una «mezza verità». La sua tesi «offertista» è quasi opposta a quella degli economisti precedenti. Mentre questi individuano il vizio d’origine nelle politiche di deregolamentazioni dei mercati, da quello della finanza sino a quello del lavoro, senza escludere anche i mercati dei prodotti e dei servizi, altri, tra cui annovero Salvati, ritengono che siano proprio le timide liberalizzazioni, le riforme strutturali non fatte, le eccessive regolamentazioni, anche le troppe tutele ed il troppo welfare pubblico, a rendere le economie intrappolate nella incapacità di evolvere, cambiare, essere dinamiche, come dinamici ed innovativi sono i sistemi meno regolamentati. Ma è proprio il connubio tra queste riforme strutturali e le politiche di austerità espansiva che in Europa ha esacerbato la crisi, che dal 2011 ha gettato il vecchio continente nella depressione perché le une e le altre hanno bloccato, anzi fatto regredire, i redditi di chi sostiene la domanda interna, i percettori di reddito da lavoro anzitutto, trasferendo reddito alla fascia della popolazione più ricca, nell’illusione che le loro spese voluttuarie e soprattutto la domanda estera avrebbero più che compensato la caduta di consumi ed investimenti nazionali e della spesa pubblica.
I vincoli europei non lasciano margini di manovra per le politiche fiscali anti-cicliche, proprio perché ottusamente costruiti per politiche pro-cicliche: in presenza di crisi impongono l’austerità trasformando la crisi in depressione; in presenza di ripresa la frenano e riportano il sistema nella crisi; solo con forte crescita diventano meno stringenti ed alleggeriscono la morsa su debito e deficit in rapporto alla crescita del reddito. Il tutto ovviamente è aggravato dalla presenza di una moneta comune: in presenza di politiche del rigore dettate dai Trattati, è praticabile solo la via delle svalutazioni interne che ogni paese deve attuare e replicare imitando quello che fa il vicino. Non sono forse queste parte delle politiche dal lato dell’offerta che si chiede di attuare in modo progressivo?
Prendiamo il nostro paese. Che abbia problemi strutturali, dal lato dell’offerta, è evidente. Immaginare che non lo vedano gli estensori dell’appello sarebbe intellettualmente «politically incorrect». Evasione fiscale, regressività del sistema impositivo, illegalità economica, inefficienza della giustizia, burocratizzazione della amministrazione, costi della (classe) politica e spreco di risorse pubbliche, scempio di territorio e ambiente, per non pensare a scarsi e distorti investimenti in capitale intangibile, innovazione, tecnologie, digitale, organizzazione, conoscenza, istruzione. Potremmo continuare…. Ma una questione abbiamo trascurato, di cui certo Salvati è sensibile, il lavoro, anzi il mercato del lavoro. Le riforme strutturali qui hanno proceduto spedite; lo attestano anche istituzioni internazionali. Per Oecd siamo stati i più virtuosi a ridurre le regolamentazioni sul lavoro. Ad inizio anni ‘90 avevamo un indice di protezione all’impiego oltre la media, lo abbiamo più che dimezzato, molto più di quanto fatto anche in Germania. Dal 1997, ad iniziare dalla riforma Treu per arrivare a quella Maroni del 2003, ed oltre, … abbiamo creato un vasto mercato di lavori flessibili senza tutele nel posto di lavoro e nel mercato. Contemporaneamente abbiamo riformato più volte il sistema pensionistico tanto che chi oggi entra nel lavoro (meglio nei lavori) non avrà modo di godere di alcuna garanzia di reddito decente quando si ritirerà. Abbiamo poi creato anche la platea degli esodati, un buco dell’ultima riforma a cui si cerca di porre mano ogni sei mesi perché neppure si sa quanti siano e quanti saranno gli «esodanti». Sempre nel 2012 abbiamo neutralizzato l’articolo 18 sulla idea che ogni licenziamento non discriminatorio (formalmente per ora) debba essere semplicemente monetizzato con un indennizzo anche se il motivo economico non è giustificato, e ciò per accresce l’occupazione ed attrarre investimenti esteri, lo abbiamo fatto saggiamente in periodo di profonda crisi. Anche sul terreno del salario reale siamo intervenuti, trasferendo prima la sua crescita alla contrattazione aziendale ma accorgendoci dopo quasi venti anni che questa copre non più del 20% delle imprese con più di 20 addetti, ma non soddisfatti abbiamo pure neutralizzato nel 2009 il meccanismo di recupero dall’inflazione con l’applicazione dell’indice dei prezzi armonizzato Ipca che non copre più l’inflazione importata ma neppure tutta quella interna. Abbiamo anche depotenziato i contratti nazionali di lavoro, con il sistema delle deroghe e dei contratti separati, ma abbiamo fatto di più: ci siamo inventati il contratto di «prossimità» che con l’articolo 8 può addirittura derogare non solo dai contratti di settore, territoriali, aziendali firmati da sindacati rappresentativi (senza però una legge che li certifichi tali!), ma anche dalle leggi votate dal Parlamento, cosicché un contratto privato firmato da soggetti con dubbia rappresentatività ha più forza di una legge statuale.
Qualcuno ha chiamato tutto ciò «deriva del diritto del lavoro». Ma non basta, occorre fare di più! Perché tutto ciò non ci ha portato a nulla .. se non nella «trappola di stagnazione della produttività», di bassi salari, basse tutele, e bassa competitività delle nostre imprese. Perché flessibilizzare il mercato del lavoro è cosa diversa dall’innovare nel lavoro: il primo produce posti di lavoro a bassa produttività e retribuzione, spesso sostituisce buona occupazione con cattiva occupazione; il secondo fa crescere la produttività, le retribuzioni, ed anche la domanda di beni e quindi l’occupazione.
Sì, credo anche io che oltre ad esservi problemi seri dal lato della domanda, spesa effettiva stagnante e politiche di austerità espansiva e consolidamento fiscale, troppo e pervicace rigore europeo e germanico, vi siano anche problemi di offerta, crescita delle disuguaglianze che alimentano la crisi da carenza di domanda, e riforme strutturali, deregolamentazioni, liberalizzazioni, che invece di curare il malato, producono effetti perniciosi, aggravano la malattia in Europa ed in Italia.
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