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L’escursione #1 di Franz Krauspenhaar

Creato il 02 settembre 2010 da Fabry2010

L’escursione #1 di Franz Krauspenhaar

Hai visto che robba? (Alberto Sordi – “Gastone”, di Mario Bonnard, 1959.)

Facciamo il gioco di chi vide in un lampo
Philip Roth che orinava L’animale morente
in un vespasiano che puzzava di morte.
Poi guarda il film che ne hanno tratto,
Ben Kingsley e Pepelope Cruz, stella:
era chiaro che da quella storia rosa
ne pisciasse fuori una telenovela
per Hollywood, Ben sa fare il gangster
e la Cruz non è una che muore, no:
al massimo sta in stato vegetativo
tutto il giorno, a mangiare tapas.
Adesso ho la prova di avere ragione
sul conto del poeta della prostata.
Roth è un bluff, ve ne accorgerete.
Come Jim Morrison, solo che quello morì
a 27 anni. I Doors erano davvero una pena
per chiunque, ma è anche vero che nel 71
la gente si faceva i pompini coi fiori,
ovviamente a vicenda.

Nabokov! Nabokov! Ti chiamo nel buco
dove stai. Can you hear me? Ora che sei
morto da decenni hai smesso di scrivere
libri di merda? Lolita è roba per menopause
maschili. Come la menopausa generally speaking
è noioso come la morte di un anonimo vip.

Doeblin al confronto m’era di sollazzo,
era un vero e proprio, che stava in melma
per scrivere, non acchiappava farfalle.
E scriveva seduto, non in piedi, al leggio
credendosi lo Stravinski della russe lettere.

Lolita è un libro per gente che ha bisogno
di addormentarsi alla svelta. E’ eccitante
come una mela cotta, come se sborrassi
semolino da una cataratta infiammata.

De Lillo vuole ucciderci con aggettivazioni
prorompenti e opprimenti, forse
per farsi perdonare la sua straordinaria
bravura nei dialoghi.

Pynchon è la morte. In questo il mai veduto
è un campione. Le particelle diventano complici
della carta, James Joyce guarda tutti loro
dall’alto, oppure sono loro che guardano
il fantasma di Joyce credendolo presente.

Rileggere oggi Carver mi mette addosso
una tristezza infinita, è come rivedere
Nashville di Altman, ti senti testimone
di un chiacchiericcio senza speranza.
Sapere che Carver scrisse poesie per soldi
fa salire l’angoscia. Fossero state belle
l’angoscia ci avrebbe risparmiato di durare.
Ma erano orrende, del tutto orrende, erano
scaracchi di un alcolista all’ultimo stadio.

Bukowski ha scritto alcuni romanzi
più butterati di lui. Le poesie si salvano
al 50%, ma anche meno. Il suo personaggio
fondamentalmente lurido ci ha fatto
sostanzialmente perdere tempo, negandoci
l’accesso, in gioventù, ad autori ben più bravi.

Calvino era un mafioso del Ponente.
A Sanremo era pieno di cubani
e di altri delinquenti. Non c’era Fidel,
che aveva dalla sua un vero progetto.
Calvino ha impestato le patrie lettere
di bigottismo formale, di architravi.
E cattedrali per architetti della fabula.
Noioso fino allo spasimo che conduce
alla morte d’ogni fantasia vera, che
si autoproduce sul sangue della vita.
Dalla Francia ha cavato le belle novità,
ma il Nouveau Roman era ben altro.
Calvino il ghignante ha cavato sangue
rosè da qualunque rapa, ha dato mano
per render sempre più il mondo letterario
una grande pasticceria per diabetici.

Moravia, cerbero zoppicante, ha fatto
libri buoni. Ripetitivo come una bossa nova,
ma raccontò qualcosa, marciumi tutti veri.

Gadda è stato lo scrittore di un solo enorme
libro, La cognizione del dolore. Sennò
gli esperimenti. Arbasino paradossalmente
è stato grande solo con un romanzo breve,
La bella di Lodi.

Il più grande poeta è stato nei decenni
Sanguineti. Chi poteva battere quel misto
di sangue, vita, immensa cultura? E’ stato
il Dante della modernità, per forza di cose
disorganico, e mitragliando frammenti di genio.

Tornando agli amerindi, che i nostri giovanotti
tanto venerano, come se avessero sul serio
qualcosa da insegnarci, Vonnegut rimane
il bluff più serio, devastante. Scrittore per
mongoloidi della lettura, un falsario da pochi
copechi rivalutati dal modernariato.

Ora mi vado a riposare. Tornerò con altre
escursioni. Parlare di scrittori fa venir male
ai piedi. Son calli. Son duroni. Si fa fatica.

[Foto: Philip Roth. Continua.]



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