di Francesco Filini
Tutte le più grandi crisi narrate dalla storia [1] possono essere catalogate in due categorie principali: crisi di natura endogena alla natura umana e crisi di natura esogena. Ovvero crisi che trovano la loro origine direttamente nell’azione degli uomini e crisi che invece hanno epicentro in fattori esterni all’azione dell’uomo come, ad esempio, i grandi sconvolgimenti naturali, le pesti e le carestie. La crisi che stiamo vivendo nei giorni nostri è senza dubbio una crisi riconducibile all’azione umana, nello specifico è una crisi dovuta ad un fenomeno chiamato rarefazione monetaria, che altro non è se non l’assenza di moneta nelle tasche dei popoli con il conseguente collasso del sistema economico.
Il collasso delle economie è dato dalla mancanza di moneta, ovvero dello strumento che si pone come metro di misura del valore, intermediario dello scambio, mezzo di pagamento e deposito di ricchezza. Senza lo strumento inventato dall’uomo per soddisfare queste quattro funzioni l’economia di una popolazione può collassare. E, per assurdo, può collassare a prescindere dalla capacità dell’uomo di produrre beni e servizi: tonnellate e tonnellate di merce possono rimanere a marcire nei container mentre tante persone muoiono di fame. Come diceva
Ezra Pound
Ezra Pound: non per mancanza di cibo, ma per mancanza di moneta. Quest’affermazione può sembrare di per sé un’ovvietà (è risaputo che chi non ha i soldi non mangia…), ma è un pensiero che va compreso nella sua semplice, essenziale, profondità: se una fascia sempre più consistente di popolazione non è in grado di approvvigionarsi di moneta tramite il lavoro, questo è dovuto non alla nullafacenza, ma alla mancanza di moneta stessa! Il lavoro viene a mancare non perché non ce ne sia il bisogno, ma perché manca il mezzo con cui poter lavorare. La situazione di migliaia e migliaia di giovani italiani ed europei è la rappresentazione plastica dell’assurdo del tempo nostro: ingegneri, ricercatori, operai, contadini, artigiani, medici, e chi più ne ha più ne metta, si trovano nella condizione di voler esercitare la propria professione e trovare un posto nella società per compartecipare alla produzione della ricchezza collettiva (che gli economisti chiamano “PIL”) eppure non possono farlo perché non ci sono i soldi. Non ci sono i soldi per aprire un’attività, non ci sono i soldi per finanziare la ricerca, non ci sono i soldi per fare le opere pubbliche, non ci sono i soldi per coltivare la terra, non ci sono i soldi per fare qualsiasi cosa. E’ evidente: senza soldi non si lavora.
A questo punto è più che legittimo chiedersi perché i soldi non ci sono. Ma prima di arrivare a
Aristotele
dare questa risposta dobbiamo chiarire per bene cosa siano i soldi, cos’è il denaro. La moneta, come insegna Aristotele, non esiste in natura, è il risultato di una convenzione, un accordo tra gli uomini. Come suggerisce il nome stesso della moneta, “nomisma”, termine che ha le sue radici in nomos (legge) e nomoi (convenzione). Gli uomini stabiliscono convenzionalmente di adottare un mezzo per facilitare gli scambi. Nel corso della storia l’uomo ha utilizzato le più disparate forme monetarie: chicchi di caffè, gemme di grano, piume, metalli di ogni genere, conchiglie, sale, ecc… Questi simboli convenzionali venivano utilizzati essenzialmente per misurare il valore. Ma cos’è il valore? Nessuno ha mai dato una definizione esatta al valore, se non il prof. Giacinto Auriti. L’errore in cui cadono gli economisti e i monetaristi del tempo nostro sta nel considerare il valore come una proprietà della materia. Ma la materia di per sé non ha alcun valore. L’oro non ha alcun valore. Ogni cosa assume valore in virtù di una previsione umana:
“Così ad esempio possiamo dire che una penna ha valore perché prevediamo lo scrivere. Quindi il valore è il rapporto tra il momento della previsione e il momento previsto. Anche la moneta ha valore perché ognuno è disposto a cambiare merce contro moneta perché prevede di poter dare a sua volta moneta contro merce. Quindi la previsione del comportamento altrui come condizione del proprio, è la fonte del valore convenzionale monetario. Ciò posto, ci si rende conto che anche l’oro ha valore di moneta, non perché sia oro, ma perché ci si è messi d’accordo che lo abbia.” [2]
Il valore appartiene quindi ad una dimensione immateriale, ponendosi al di fuori dello spazio fisico. Il valore appartiene al tempo, appartiene ad un’attività umana interiore, immateriale, spirituale. Se il valore di una moneta fosse riconducibile alla materia, ovvero risiedesse nel materiale di cui è composta, oggi potrei tranquillamente spendere al bar mille delle vecchie lire per prendere un caffè. Ciò non è possibile perché il simbolo monetario ha perso la convenzione che lo teneva in piedi, conservando tuttavia la sua integrità fisica, materiale. La moneta non è quindi una merce e il valore nasce per convenzione.
Oggi i simboli monetari sono essenzialmente di costo nullo: carta e bit elettronici. Chi controlla l’emissione e la circolazione della moneta è il sistema bancario internazionale, che può crearla e ritirarla a suo piacimento Tutto ciò è stato messo nero su bianco anche da importanti trattati internazionali: il Trattato di Maastricht assegna ad un organismo sovranazionale, antidemocratico ed elitario come la BCE, la facoltà di regolare la circolazione monetaria con la scusa di proteggere la moneta dall’inflazione. Si chiama Politica Monetaria, e non viene fatta dagli Stati che in democrazia sono (o dovrebbero essere) gli organi che rappresentano i popoli, ma dal sistema bancario.Se non altro, sappiamo chi è il responsabile della crisi, ovvero chi ha il compito di regolare il “sangue del mercato”. Lasciamo ancora alle parole del Prof. di Guardiagrele la spiegazione del fenomeno:
Giacinto Auriti
“La rarità del simbolo monetario, tradizionalmente causata dalla rarità della merce con cui il simbolo era coniato (oro), oggi viene accettata come un fatto del tutto normale, pur essendo la moneta di riserva producibile senza limite e senza costo, in quantitativi arbitrariamente stabiliti dai vertici delle banche imperiali. Allo stato attuale delle cose, tutti i popoli del mondo sono ridotti a livello di colonie del sistema bancario internazionale, con l’aggravante di non saperlo, perché tutte le iniziative di politica monetaria sono promosse sul presupposto che la riserva sia necessaria per conferire alle rispettive monete nazionali il proprio valore. [...] La moneta infatti è come il sangue: la sua quantità va proporzionata all’entità del corpo da irrorare.
Per rendersi conto di questa verità basti considerare un esempio elementare: se sul mercato vi sono dieci penne e dieci lire, si potranno mediamente vendere le penne al prezzo unitario di una lira; ma se si devono produrre altre dieci penne, si dovrà mettere sul mercato altre dieci lire, ché altrimenti si potranno vendere le penne solo al prezzo di mezza lira. E se la penna costa ad esempio sessanta centesimi, è ovvio che il procedimento produttivo, in mancanza di incremento di liquidità monetaria, si arresta. Questo significa che ogni libertà decisionale sullo sviluppo o la recessione economica dei mercati, non sta nelle mani di produttori di beni reali, ma in quelle del sistema bancario che produce moneta di riserva.” [3]
E’ così, non possiamo decidere del nostro destino se non ci riappropriamo della sovranità monetaria. Tutte le alchimie, i pensieri astratti, gli arzigogolii del mondo della politica, dell’informazione e della finanza, sono facezie che non vanno al cuore del problema. E questa truffa a danno dei popoli è già stata smascherata. Bisogna solo prendere coscienza.
Twitter @francescofilini
Note
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[1] Già Tito Livio nella sua opera Ab Urbe Condita racconta di una serie di carestie
avvenute sin dalla fondazione della Città Eterna, come la crisi del 492 a.C. dovuta al
boicottaggio dell’agricoltura da parte della plebe in seguito alla secessione sul Monte
Sacro1, oppure quella del 456 a.C. causata dalle eccessive piogge2. Sempre Tito Livio ci
racconta di come nel 433 a.C. Roma, allora governata dai Tribuni con potestà consolare
Marco Fabio Vibulano, Marco Folio e Lucio Sergio Fidenate, conobbe una gravissima
pestilenza che fece temere una nuova carestia, per questo motivo i cittadini fecero incetta
di frumento3. Una nuova pestilenza provocò nel 411 a.C. l’incuria dei campi e quindi
nuova mancanza di frumento che costrinse i romani ad approvvigionarsi nell’Etruria e
nella Sicilia per scongiurare la crisi4. Sarà ancora una pestilenza nel 383 a.C. a provocare
una nuova carestia e a spingere i romani alla guerra contro i Volsci e i Latini5.
Ma la storia è piena di questi episodi, si pensi che la popolazione di Roma tra il 400
e l’800 d.C. diminuì del 90% in seguito alle numerose pestilenze e carestie che si
succedettero negli anni. Il biologo statunitense Jared Diamond e il climatologo Ben Cook
attribuiscono alla dissennata deforestazione la causa che provocò l’enorme siccità che fece
letteralmente estinguere la popolazione Maya tra l’800 e il 950 d.C, un vero e proprio
suicidio ecologico6. Quattro mesi di gelo tra il 927 e il 928 d.C. misero letteralmente in
ginocchio l’Impero Bizantino. In un articolo del Corriere della Sera del 5 Aprile 20117 si
apprende che in Giappone, le carestie Kangi del 1229-32 e le carestie Shoga del 1257-60
furono provocate da spaventose eruzioni vulcaniche. Allo stesso modo il disastro alimentare che colpì l’altopiano messicano pochi decenni prima dell’ arrivo dei conquistadores fu causato dall’ eruzione del Kuwae, a Vanuatu, intorno al 14528.
L’elenco è decisamente molto lungo e basterebbe citare i centomila morti in Francia
a causa della pestilenza e la carestia nel 1097, i due milioni in Russia tra il 1601 e il 1603,
gli altri 2 milioni che decimarono l’India durante la carestia Deccan del 1630-1632, i 15
milioni della Grande Carestia Irlandese degli anni 1845-1849 e gli oltre 45 milioni di
vittime che si ebbero in Cina in seguito alle quattro carestie degli anni 1810, 1811, 1846,
18499, per vedere come nel corso dei secoli malattie e pestilenze, mancanza di cibo,
interventi scellerati sul territorio e guerre abbiano causato centinaia di milioni di vittime.
Ma esiste un’altra tipologia di crisi che è in grado di mettere in ginocchio interi popoli,
questa non è dovuta ad eventi esogeni come grandi sconvolgimenti tellurici, tempeste
solari, mesi e mesi di continui diluvi, siccità e pestilenze di vario genere. E’ dovuta ad un
fenomeno esclusivamente di natura endogena, ovvero causato direttamente dagli uomini. Il
riferimento non è alla guerra che, come la storia ha ampiamente dimostrato, è lo sbocco
naturale di ogni periodo di decadenza, ma alla crisi causata dalla speculazione monetaria.
Non soltanto la storia attuale e quella recente ci parlano di importanti crisi finanziarie, ma anche quella passata. L’insolvenza di banche e istituti di credito, generata dall’insolvenza dei debitori da una parte e da prestiti erogati con troppa “audacia” dall’altra, è la principale caratteristica delle cosiddette “crisi del debito”. Già durante il ‘300 nella Firenze dei banchieri Peruzzi e Bardi si verificò una grande crisi che coinvolse e mise sul lastrico tutto il fiorentino. Le storiche famiglie di banchieri italiani si erano infatti esposte con ingenti somme prestate al sovrano inglese Edoardo di Carnarvon che, per finanziare le sue azioni belliche, si era indebitato per l’enorme cifra di 125.000 sterline. Il sovrano ripudiò il debito, i “banchi” fiorentini furono incapaci di restituire i soldi a coloro che li avevano depositati presso di loro: ci fu una vera e propria crisi che portò al collasso dell’economia dell’epoca.
[2] Giacinto Auriti, L’Ordinamento internazionale del sistema monetario, Solfanelli 2013
[3] Ibidem