Per parecchio tempo la storiografia ha fatto del ‘700 il “secolo della ragione” contrapponendolo ai periodi passati domanti dall’oscurantismo e dalla superstizione. Si sono spesso esaltati gli aspetti positivi dell’illuminismo sottacendo però quelli negativi.
Ultimamente, però gli accademici cominciano a guardare alla cosiddetta razionalità illuminista in modo alquanto critico. Pare infatti che questo periodo abbia posto i germogli per il razzismo scientifico (famose sono le opinioni di Voltaire contro i neri e gli ebrei) e sul controverso rapporto che ebbe con la religione. È certo che l’illuminismo ha attinto molte idee dal cristianesimo trasformandole però in forma secolarizzata, come la fede nell’uomo e la sua dignità, la figliolanza divina dell’intero genere umano e l’armonia della natura e della regolarità del mondo. La maggior parte degli illuministi credeva all’esistenza di un dio creatore concepito come un “Architetto dell’Universo”, ma rifiutava qualunque dualismo metafisico negando quindi l’esistenza del diavolo (F. Valjavec, Storia dell’illuminismo, Bologna 1973 pp. 104-108).
Dal punto di vista religioso l’illuminismo abbracciò quindi il deismo, considerata la sola religione razionale e naturale, assumendo verso le altre religioni un atteggiamento scettico e molto spesso irriverente. La maggior parte degli illuministi credeva che il compito della ragione fosse quello di rischiarare le tenebre delle religioni positive, analizzandone le origini storiche e gli usi sociali e mettendone in luce tutta la loro disumanità. Il motto di Voltaire “Ecraisez l’infame” era appunto diretto, come diceva lui, contro le superstizioni e le assurdità delle religioni positive. Verso la fine dell’illuminismo però nacque una corrente “atea” che vedeva nella stessa esistenza di Dio un ostacolo al progresso e uno strumento d’intolleranza e oppressione: nella sua Politica Naturale D’Holbach accuserà la religione del fatto che essa, educando l’uomo a temere tiranni invisibili, lo educa al servilismo e alla vigliaccheria; mentre Diderot nel Trattato sulla tolleranza affermerà che il deista, pur avendo la testa all’idra, vi ha lasciato quell’unica dalla quale rinasceranno tutte le altre e affermerà che la Natura dovrebbe soppiantare la divinità (G. Reale- D. Antiseri, Il pensiero occidentale. Dalle origini ai giorni nostri. Vol. 2, Brescia 1983 pp. 505-507).
Bisogna aggiungere che nonostante gli illuministi facessero spesso importanti battaglie a favore della libertà religiosa, la loro idea sul ruolo della Chiesa non era priva di ambiguità. Filosofi come Voltaire o Rousseau consideravano le dottrine teologiche della Chiesa delle vere imposture, ma pensavano anche che la religione fosse indispensabile al mantenimento della pubblica moralità. La Chiesa che avevano quindi in mente era strettamente legata alle finalità dello stato e vedevano perciò i preti come dei funzionari civili piuttosto che ministri del culto. Durante l’illuminismo nacquero o si rafforzarono molte “leggende nere”. Così Edward Gibbon (1737-1784) minimizzava la portata delle persecuzione romane contro i cristiani e ne aumentava a dismisura quelle subite dai pagani (“[Il regno di Teodosio] è forse il solo esempio di completa eradicazione delle superstizioni popolari”). David Hume (1717-1776) definì invece le crociate come “il più notevole e il più durevole monumento alla follia umana che sia mai apparso in ogni epoca e nazione”, mentre Voltaire (1684-1778) parlò del medioevo come di un tempo in cui “la barbarie, la superstizione e l’ignoranza coprirono la faccia della terra”.
La battaglia contro le “superstizioni” non avvenne però solo sul piano teorico, ma assunse in alcuni casi un aspetto pratico. Infatti molti sovrani si fecero promotori di importanti riforme dettate da criteri razionalisti (il fenomeno detto “Assolutismo illuminato”). Nei loro progetti infatti, il potere assoluto non era posto in discussione, ma al contrario l’obiettivo ultimo era quello di un rafforzamento dello stato. Molti governi europei iniziarono perciò una politica giurisdizionalista tendente a sottomettere sempre di più la Chiesa al controllo dello stato. Il caso più eloquente è probabilmente quello dell’imperatore austriaco Giuseppe II che impronterà il suo regno a principi illuministi (“Ho fatto della filosofia, la legislatrice del mio impero” dichiarò) e cominciò così una campagna anticlericale per eliminare i privilegi della Chiesa, ma anche per sottometterla alla sua autorità: venne perciò denunciato il concordato del 1757, tassato il clero come i laici, sciolti gli ordini religiosi contemplativi, trasferiti i monasteri dalla giurisdizione del papa a quella del vescovo diocesano, promosso un nuovo tipo di catechismo, ridotti i contatti delle chiese con Roma, regolamentate le processioni, il suono delle campane, l’orario delle messe e persino il numero delle candele sugli altari. Queste tendenze furono causa della distruzione di un enorme patrimonio artistico, storico e spirituale e finirono per burocratizzare le espressioni del culto nella prospettiva di una statalizzazione della Chiesa e vi furono resistenze da parte della popolazione (L. Mezzadri – P. Vismara, La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, Roma 2006 pp. 304-309).
Giuseppe II riteneva infatti non solo che la Chiesa non dovesse immischiarsi negli affari riguardanti lo stato, ma anche che lo stato avesse tutto il diritto di legiferare sugli affari ecclesiastici (principio che verrà adottato, in maniera ancora più estrema, dai rivoluzionari francesi). Il segno più visibile della difficoltà del papa in quel periodo fu lo scioglimento dei gesuiti. Questi erano visti come l’incarnazione del cattolicesimo chiesastico e godevano di un certo prestigio negli stati europei anche se i loro avversari tendevano ad esagerarne la portata e l’influsso. I gesuiti sono infatti temuti all’obbedienza della Santa Sede e a servirla efficacemente: per merito loro verranno evangelizzate regioni in India, Cina e nel Nuovo Mondo predicando la fede e contribuendo anche al progresso dei popoli insegnandoli le scienze e le tecniche occidentali. Cominciò così una feroce campagna denigratoria contro di essi: si accusarono i gesuiti di ipocrisia, dei peggiori delitti e dei più spregiudicati intrighi, da più stati provenne la richiesta di scioglimento. Ciò avvenne assieme all’espulsione e i motivi che vennero addotti furono diversi nei differenti stati: in Francia, ad esempio, oltre alla sistematica lotta effettuata contro di loro dai liberi pensatori e dai giansenisti, l’ordine fu coinvolto nell’affare di padre Lavalette, economo della compagnia in Martinica: egli fu espulso dall’ordine che si rifiutò di pagare i debiti contratti dal confratello in alcune disgraziate imprese commerciali. Il parlamento di Parigi obbligò però i gesuiti a pagare per lui un debito di un milione e mezzo di livres (1761) e negli anni successivi decretò lo scioglimento dell’ordine, provvedimento che verrà avvallato dal re nel 1764.
In Portogallo invece l’occasione per procedere contro l’ordine fu dato dai fatti accaduti nello “stato gesuita” del Sud America: a seguito di un accordo tra Spagna e Portogallo relativo al territorio uruguaiano, i portoghesi si impossessarono delle terre su cui erano insediate le riduzioni gesuite (territori nei quali gli indigeni si organizzavano e lavoravano liberamente, dividendo poi tra loro i proventi del loro lavoro), ma dovettero faticare a lungo per impossessarsene e scacciare i nativi poiché si trovarono di fronte alla resistenza dei gesuiti che organizzarono militarmente gli indigeni riuscendo a resistere per molto agli assalti degli schiavisti, tanto che fu necessaria una spedizione militare portoghese in piena regola effettuata dal primo ministro Pombal per vincerne la resistenza. Questi giungerà persino ad accusare i gesuiti di complicità nell’attentato nel quale fu ferito il sovrano Giuseppe I e utilizzò questo pretesto per la loro espulsione dal Portogallo e dalle colonie. Furono persino interrotti i rapporti diplomatici con Roma e Pombal giunse ad incarcerare Gabriele Malagrida, un gesuita di origine italiana, condannandolo a morte come eretico.
Nonostante le richieste provenienti da più parti, papa Clemente XIV, al contrario del predecessore Clemente XIII, acconsentì alla sospensione dei gesuiti, decretata nel 1773, di fronte alla pressione armata e alla minaccia di sciogliere tutti gli ordini religiosi. Il risultato fu una grande perdita di influenza da parte della Chiesa, salutata con grande soddisfazione dai suoi avversari, come Voltaire (che nel “Candido” dipinse i gesuiti come fautori dello schiavismo e gli illuministi come liberatori) e anche gravi danni al lavoro missionario e all’istruzione (non è un caso che due sovrani non cattolici come Federico II di Prussia e Caterina II di Russia ne permisero la sopravvivenza). La Compagnia sarà infine ristabilita da Pio VII nel 1814 (La Chiesa tra rinascimento e illuminismo, pp. 262-263).
Non si può negare che l’illuminismo abbia contribuito ad importanti conquiste civili, ma dipingere un periodo “aureo” fatto solamente di conquiste e riforme contrapponendolo ai “secoli bui” fatti di barbarie e superstizione non è nient’altro che un grave torto alla verità storica.