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L’ immagine dispotica secondo Giacomo Nanni

Creato il 20 aprile 2012 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Ebbene, a questo punto ci siamo ormai persi in un labirinto di doppi, e di doppi di altri doppi; quel che è certo è che i 15 minuti non passeranno mai, la storia è finita prima di cominciare e, come se non bastasse, a forza di incrociare gli occhi ci è pure venuto il mal di testa… se fossimo al cinema   probabilmente la pellicola, dopo essersi spezzata, avrebbe preso fuoco e staremmo scappando via di corsa.

Potrebbe sembrare un’esagerazione, eppure questo breve racconto a fumetti  sembra avere più di un punto in comune con il cinema, soprattutto se ripensiamo alla brillante definizione che ne diede Stanley Cavell: il cinema come una “successione di proiezioni automatiche del mondo”.

Questo fumetto, infatti, nella successione verticale di immagini assolutamente identiche, sembra rimandarci proprio alla pellicola cinematografica e alla ripetitività del fotogramma. Certo, c’è una differenza sostanziale: il fotogramma cinematografico è ottenuto automaticamente attraverso un dispositivo fotografico: la natura “si disegna da sola” (uno slogan in voga ai tempi dell’invenzione della fotografia) e il compito dell’operatore è solo quello di premere il pulsante “REC”.

Il fumetto invece dovrebbe essere ancora il territorio dell’ispirazione artistica legata alla manualità artigianale, ma la visione nostalgica sembra stridere in parte con il procedimento di creazione di quest’opera, sia a livello delle singole vignette, che della concatenazione delle stesse nell’atto di produrre racconto. Assistiamo di fatto a una meccanizzazione di questi procedimenti: ogni vignetta appare ricalcata da un’immagine fotografica e riprodotta attraverso una complessa stratificazione di retini che simula l’effetto impersonale di un filtro applicato da un programma di fotoritocco, piuttosto che la mano e la personalità dell’artista. Pure il teschio della vignetta finale sembra ottenuto con una sorta di fotomontaggio; ma è soprattutto a livello di storytelling che il meccanismo si rende palese, dal momento che si incorpora il più elementare degli strumenti meccanici di produzione delle immagini: la duplicazione.

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Questo fumetto in pratica può esser visto come una specie di dispositivo che riproduce automaticamente le  immagini e  sottomette l’ispirazione dell’artista alla logica del dispositivo stesso.  In altre parole, la storia funziona come un congegno che  ha bisogno di replicarsi internamente,  crea  continuamente nuove immagini secondo un procedimento che, apparentemente, è a tutti gli effetti meccanico e impersonale.

Ma c’è un qualcosa che produce una spinta contraria a questo procedimento automatico, destinato a fare collassare il dispositivo su se stesso: si tratta del tentativo di sottrarre una immagine allo scorrere del tempo affinché si imponga sulle altre. Questo tentativo può esser visto come una sorta di tirannide, tanto più che l’immagine dispotica che esige questa identificazione costrittiva vorrebbe essere quella di un despota.

Per quale motivo questa prevaricazione assume sfumature politiche?
Che rapporto c’è tra la nostra storia recente e le strutture sintattiche di un racconto a fumetti un po’ strambo?
A questo punto sarà meglio fare alcune precisazioni in merito.

L’oppressione dei regimi dittatoriali si attua, anche ma non solo, attraverso un tentativo di annullamento del tempo storico: non ci può essere alcuna evoluzione nella storia che superi il sistema vigente. In altre parole il regime, per potersi mantenere, congela il divenire storico relegandolo alla sfera del mito: agli estremi di questo presente idealizzato avremo il Mito delle Origini (il legame con un passato nobile che conferisca autorevolezza all’esercizio del potere vigente) o il Sol dell’Avvenire.

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I regimi totalitari del secolo scorso esercitavano un dominio spettacolare di tipo primitivo che si manifestava attraverso l’imposizione forzata di una immagine sulle altre: l’immagine del Capo, replicata all’infinito, era una sorta di modello a cui tutte le altre immagini si dovevano uniformare. Come ha scritto Guy Debord: “se ogni cinese deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nient’altro da essere”.

Dal momento che ogni regime si pone in una prospettiva antistorica, queste pretese di universalità possono anche tradursi, sul piano della rappresentazione, come tentativo di isolare una immagine dal flusso della storia, tanto più se si tratta proprio dell’immagine del Capo: in questo modo le si conferisce un potere assoluto e sovratemporale che si oppone al continuo, incessante fluire delle immagini che è, anzi, un emblema della contemporaneità, intesa come inafferrabilità del presente.

Questo controllo si può attuare attraverso la reiterazione (indottrinamento, advertising) o, come mostra benissimo Giacomo Nanni, con un imperativo che obblighi lo spettatore a identificarsi con l’immagine del Capo, fermandovi lo sguardo per un tempo definito:

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In altre parole, questa identificazione forzata può essere intesa come una metafora del modo con cui viene attuata la repressione dell’individuo nei regimi dittatoriali, mentre il fallimento miserevole di questo procedimento suggerisce l’inattuabilità odierna di queste strategie.

Nanni è molto abile nell’ironizzare su questo tentativo, destinato alla sconfitta, delle immagini (e degli uomini) di sottrarsi allo scorrere del tempo. Ognuna di esse è destinata a scomparire per essere rimpiazzata da altre ed egli rappresenta in maniera esplicita questo destino di morte, mettendo in ridicolo queste pretese di dominio e di immortalità destinate allo smacco. Inoltre è interessante che l’autore parta, per muovere questa sua critica, proprio da Warhol, che è stato forse il più importante interprete dello spettacolo raccontato attraverso la proliferazione incontrollata delle immagini, evidenziando per primo il destino di morte che incombe su di esse (al punto che potremmo leggere tutta l’opera dell’artista newyorkese  come un vero e proprio funerale delle immagini).

Infine ci parla degli abusi di un tiranno che non si vuole togliere dai piedi non per mezzo delle sue azioni, ma proprio attraverso una riflessione sul funzionamento stesso del fumetto.

È il meccanismo stesso del media che viene analizzato dall’autore: questa consapevolezza strutturale diventa essa stessa il principale veicolo di senso ed è uno dei principali motivi di interesse del suo lavoro.

Da questo punto di vista Nanni a mio parere è uno degli autori italiani che in maniera più consapevole riflettono sui meccanismi di ripetizione, successione, giustapposizione che stanno alla base del racconto per immagini. Forza questi meccanismi al limite e cerca di scoprire in che modo queste fratture, incertezze, allitterazioni e balbettii arrivino a produrre senso e nel farlo riesce, a volte, ad aprire nuovi scenari e nuove strade possibili al racconto.

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Riferimenti:
Il sito di Giacomo Nanni: www.giacomonanni.com
Nanni su Il Post: www.ilpost.it/giacomonanni

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