Magazine Psicologia
Collaborazione tra Università degli Studi di Siena e Centro Studi Bhaktivedanta.
Intervista a Marco Ferrini.
1) Ascoltare è una questione di atteggiamento interiore che non viene insegnata nelle scuole di musica. Eppure l’arte di ascoltare vale quanto quella del compositore o dell’interprete poiché è un mezzo con cui l’ascoltatore scopre la propria creatività. Un vero ascoltatore è qualcosa di estremamente quieto e silenzioso. In questo silenzio e attraverso di esso, giungono all’anima i profondi contenuti della musica. L’abilità nel percepire o osservare le forze spirituali nascoste nella musica, è ciò che ci manca. Cos’è per lei l’ascolto?
L’ascolto attiene a vari stati di coscienza. Esistono diversi modi di ascoltare. L’ascolto è una modalità dell’essere. Quando noi vogliamo che qualcosa entri profondamente dentro e ci pervada, ascoltiamo in un modo. Quando invece cerchiamo solo un’informazione banale, di limitata utilità, ascoltiamo superficialmente. Se vogliamo cogliere un insegnamento profondo, una verità sulla quale siamo pronti a strutturare la nostra vita, per dare un senso alla nostra esistenza, allora ascoltiamo con differente attitudine. L’ascolto dunque ha varie profondità che corrispondono all’interesse che ci anima. Quando l’interesse è alto, sicuramente l’ascolto è molto profondo. C’è un ascolto di informazioni che vengono dall’esterno, che pur essendo preziose non sono quelle di massimo pregio, quanto invece quelle che provengono dalla nostra interiorità, ascoltando le quali capiamo che cosa veramente ci interessa, quali fra le tante nostre possibilità desideriamo far crescere e quali invece potare, sacrificare, affinché crescano i rami più importanti. Nelle scelte importanti c’è un ascolto profondo e quello della nostra voce interiore è sicuramente l’ascolto più significativo. Purtroppo vediamo che la gente ha perduto non solo l’arte dell’ascolto, ma anche l’opportunità di essere educata ad ascoltare. La preghiera è ascolto, la meditazione è ascolto, più meditiamo in profondità, più ascoltiamo i nostri bisogni veri che sono quelli spirituali, ontologici e un minuto o pochi minuti di questo ascolto possono trasformare la vita e donarci quell’orientamento illuminato che noi cerchiamo da sempre verso la felicità.
2) Gorge Balan, fondatore della musicosofia, sostiene che più che chiedersi qual è il messaggio della musica dopo l’ascolto, bisogna chiedersi cosa è rimasto nella memoria. A volte qualche tratto della melodia torna in mente e il posto dove scompaiono le melodie è in stretta relazione con l’io superiore. Ricordare le melodie è esercitarlo. Dice inoltre che i primi suoni che restano in noi sono i primi fiori della comprensione. I Veda, le sacre scritture indiane, parlano di questo luogo? E a cosa corrisponde?
I Veda sono per definizione Ascolto. Il loro nome tecnico è Shruti che vuol dire: ciò che si ascolta. Il Veda quindi si ascolta, non si legge, lo si apprende ascoltando. Le Upanishad, che sono il corpo filosofico dei Veda, sono ciò che si ascolta ai piedi del Maestro. L’ascolto ha sicuramente un ruolo di primo piano. Il luogo è l’Atman, il Sé, per dirla in termini junghiani. Le Upanishad dicono che l’orecchio non ascolta, come l’occhio non vede e come la pelle non sente: è il Sé che compie tutte queste funzioni. Il Sé è immobile, non fa attività, è definito testimone. Il luogo dell’ascolto è sicuramente il Sé, è anche il luogo dove le dinamiche si mettono in moto e fanno succedere gli accadimenti, è la qualità di coscienza che fa accadere le cose. Nel bene e nel male i filtri del Sé, i filtri mentali, la struttura psichica, possono riflettere dal mondo distorsioni o raggi di luce imperfetti. Il luogo della memoria, dove possono rivivere e vengono evocati e quindi fatti germinare i semi della conoscenza, sia essa artistica, scientifica, filosofica o religiosa, è il Sé, l’unico centro creativo che si manifesta nel mondo attraverso il piano immanente con l’ausilio dell’intelletto, dell’ego, dei sensi. La centrale è il Sé, l’Atman, o il Brahman per utilizzare una terminologia vedica.
3) La musica ci addormenta o ci sveglia. Quali sono le “stampelle” che ci possono aiutare per un ascolto consapevole?
La musica può essere arte quando è fornita sottoforma di esperienza estetica, oppure può essere conoscenza quando è sottoforma di insegnamento. L’atteggiamento è quello di recepire con attenzione alta che colga anche ciò che non va, parlo quindi di attivare lo stato critico in cui si opera quell’importante discernimento fra ciò che è reale e non reale, corretto e non corretto, giusto o ingiusto. Bisogna riconoscere le stonature, gli errori, le strutture fallaci, sia in arte, sia nelle scienze, nella religione, in filosofia, in psicologia. Apertura al massimo ma anche con il massimo di attenzione perché chi ascolta sia consapevole non solo di ciò che sta ascoltando, ma anche di se stesso e dell’operazione che sta facendo ascoltando. Non si può essere addormentati, storditi, narcotizzati, sarebbe come lasciarsi andare ad uno stato di abbandono inferiore, pericoloso, che scivola nell’oblio. L’ascolto deve essere attento e rapito. Questa attenzione non compromette e non minaccia lo stato di rapimento, anzi lo salvaguarda dall’infiltrazione di condizionamenti, di virus che lo disturberebbero.
4) Con Mozart non si sa mai se il cuore piange o ride. Nella sua musica questa ambiguità è sempre presente. Il genio, in questo caso Mozart, si alza in regioni dove non penetra la nostra razionalità che distingue ciò che è gioia da ciò che è dolore. La musica produce emozioni, ma non è emozione. Lei cosa ne pensa?
Non sono un esperto di Mozart, ma studio da oltre trenta anni il fenomeno emotivo; secondo l’antica filosofia, psicologia e scienza dei Veda, che le emozioni appartengono ad una realtà superiore: si chiamano Rasa ed è solo la loro distorsione che sperimentiamo attraverso il nostro sistema nervoso. Qualsiasi artista ci proponga un’opera d’arte, suscita in noi degli astati d’animo e la vera arte ha proprio lo scopo di portarci al livello più alto nel ritrovare quelle emozioni che sono vicine ai rasa, ovvero alle emozioni spirituali. E’ chiaro che quelle emozioni, essendo appartenenti non a questo mondo, ma al mondo delle idee, direbbe Platone, sono fuori dal tempo e dallo spazio, quindi non si può dire che il pianto e il riso, la gioia e il dolore siano veramente in contraddizione, perché non esiste un prima e un dopo. La mia esperienza è: queste coppie di apparenti opposti non sono in contraddizione, su livello di esistenza trascendente, sono complementari nel produrre una gioia di tipo superiore. Ovvero: dolore e gioia cessano di essere opposti e vengono ad armonizzarsi su di un piano che li trascende entrambi. E’ per questo che nei grandi artisti si passa dalla gioia al dolore, dal riso al pianto senza percepire un contrastante stato d’animo, ma un’ispirazione sempre crescente, perché a quel livello gli opposti servono l’uno all’atro per lanciarci sempre più in alto.
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