In vista del turno di ballottaggio del 29 e 30 maggio, il premier Silvio Berlusconi ha preparato la controffensiva televisiva, dopo alcuni giorni di silenzio in seguito ai clamorosi risultati del primo turno delle elezioni amministrative. Il Presidente del Consiglio ha invaso i tg, con interviste rilasciate ai tg Rai Tg1 e Tg2, e a quelli Mediaset Tg4, Tg5 e Studio Aperto. “Non mi sento reietto in alcun modo. Alcuni telegiornali avranno chiesto l’intervista al premier, che avrà deciso di accordarla. Noi non abbiamo chiesto alcuna intervista e non è certo obbligatorio farsi intervistare da tutti i tg” ha dichiarato il direttore del Tg La7 Enrico Mentana sull’assenza del suo tg, insieme al Tg3 di Bianca Berlinguer, tra quelli che hanno ospitato le interviste al premier. Intanto il presidente della Rai Paolo Garimberti ha chiesto un riequilibrio. Infatti, come si legge in una nota, ”Un conto è dare una notizia, e il primo commento del Presidente del Consiglio ai risultati delle amministrative certamente lo era. Altro discorso è consentire che questa notizia diventi poi una sorta di comizio, per giunta senza un’adeguata compensazione con opinioni di altri candidati. Questo – ed è ben noto – nessun giornalista dovrebbe mai permetterlo, meno che mai i giornalisti del Servizio Pubblico che devono sempre avere chiara la missione fondamentale che è affidata loro: informare e dare al cittadino la possibilità di avere un panorama completo delle opinioni. Alla luce di quanto accaduto, è necessario che la Rai – per adempiere appieno alla sua missione di Servizio Pubblico – riequilibri tempestivamente dando spazio, sui temi delle amministrative, a punti di vista di candidati o leader di partiti diversi da quello del Presidente del Consiglio”.
Il quotidiano cattolico Avvenire ha sollevato “legittimi dubbi” sull’invasione di Berlusconi:
Dopo cinque giorni di silenzio, un’intervista al presidente del Consiglio era effettivamente un’occasione giornalisticamente ghiotta, prima ancora che politicamente interessante. Un’intervista, però. Di quelle, magari, con domande non banali. Era perciò prevedibile che la scelta di Silvio Berlusconi di parlare agli italiani all’ora di cena, quasi a reti unificate, scatenasse reazioni da parte delle forze di opposizione. Facendo crescere pure perplessità sul rispetto della par condicio, sul ruolo del servizio pubblico nel mezzo di una competizione elettorale. Ma è in particolare la cifra dell’intervento del presidente del Consiglio – ancora una volta teso ad attaccare l’avversario, a sponsorizzare un singolo programma elettorale fin nei minimi particolari – a sollevare interrogativi. È davvero utile che Silvio Berlusconi sovrapponga così il suo volto a quello dei candidati locali? È opportuno che getti nella battaglia tutto il peso del governo, facendosi riprendere con il simbolo elettorale a fianco? Soprattutto: è questo che gli italiani si aspettano da un presidente del Consiglio? Il primo turno elettorale, anche a questo proposito, ha dato un messaggio eloquente.Anche Famiglia Cristiana ha criticato aspramente il premier, parlando di “arroganza a reti unificate” e affermando che “sono state scritte due brutte pagine: una da un primo ministro e proprietario di televisioni che si arroga prerogative inaccessibili agli avversari politici; l’altra da un giornalismo Tv che non tiene dritta la schiena ma si genuflette”:
(di Giorgio Vecchiato – Famigliacristiana.it) I giornali avversari avevano fatto un cauto pronostico: vedrete che Berlusconi, dopo il lungo silenzio postelettorale, tornerà a farsi vivo. Forse una conferenza stampa, forse un’intervista in Tv. Una sola, ritenevano; nessuno immaginava che potesse farne cinque in un colpo solo, non perché i giornalisti le avessero implorate ma perché è stato lui a imporle. Un primo pacchetto ai tre Tg di Mediaset, che sono cosa sua sebbene Berlusconi sostenga da sempre di non interessarsi alle sue aziende, almeno in prima persona. Evidentemente ci sono altre persone cui basta ricevere una telefonata, pronte a obbedir tacendo. Poi i due maggiori Tg della Rai, primo e secondo: e qui il discorso, già parecchio delicato, ulteriormente si complica. Esiste una AgCom che dovrebbe fissare le regole della comunicazione e, in caso di irregolarità, punire gli inadempienti. Già il fatto che il premier irrompa nella campagna per Milano e Napoli usando le reti di sua proprietà dovrebbe far ricordare che c’è un piccolo inciampo, chiamato conflitto di interessi. Ma tutti zitti. E lo stesso, ciò che è peggio, per le reti a canone. Pare che la Commissione debba riunirsi mercoledi prossimo, lasciando che nel frattempo Berlusconi faccia altri monologhi davanti a reverenti cronisti. Nessuno dei quali, superfluo notarlo, si è sognato fin qui di avanzare contestazioni o anche semplici obiezioni. Ora non è da dubitare che i membri dell’AgCom siano carichi di incombenze private, tanto da dover rinviare una riunione di interesse pubblico. Ma se ritengono di poter attendere mercoledi, tanto vale posporre a giugno o luglio; tanto i buoi sono già scappati. L’imposizione del primo ministro e l’acquiescenza delle reti pubbliche hanno suscitato violente reazioni, che oggi riempiono i giornali: dall’illegalità al paragone con la Bielorussia. Superfluo citarle per esteso. E’ da chiedersi piuttosto quale effetto avranno queste esternazioni a reti unificate, non tanto per il loro contenuto quanto per la linea padronale che esprimono. Di nuovo o inatteso, Berlusconi non ha detto nulla. Al più si è maggiormente avvicinato a Bossi per la faccenda della Grande Moschea, degli zingari incombenti e della sinistra inaffidabile. Copione conosciuto. Che ciò serva per i ballottaggi, o dia esito negativo, è tutto da vedere. Sembrava che il premier fosse stato colpito dai commenti dopo il voto, dove si giudicava assai più dannoso che proficuo l’avere impostato un referendum sulla sua persona. Evidentemente non è così. Se prima aveva “mostrato la faccia” in singoli comizi, adesso siamo ad una carica di tipo alluvionale. E condotta non su iniziativa dei singoli Tg ma, ripetiamo, convocando d’autorità le redazioni private e pubbliche. Qualcuno troverà che si tratta di un giusto contraltare ai Santoro, Floris e sinistra assortita, visti dal premier, ed anche dal suo elettorato, come il fumo negli occhi. Altri baseranno il loro giudizio sull’arroganza del potere, che da noi è raramente premiata ma non demorde. E chissà come saranno accolti i tre ministeri in regalo elettorale, due a Milano, secondo le indiscrezioni, e uno a Napoli. Comunque, non c’è che da aspettare. Per il momento, senza bisogno di attese, sono state scritte due brutte pagine: una da un primo ministro e proprietario di televisioni che si arroga prerogative inaccessibili agli avversari politici; l’altra da un giornalismo Tv che non tiene dritta la schiena ma si genuflette.Il giornalista Mario Ajello sul quotidiano Il Messaggero ha invece analizzato la strategia comunicativa di Berlusconi. Infatti il premier ha differenziato il format, diversificando il messaggio, a seconda della platea televisiva a cui si rivolge:
(di Mario Ajello – Il Messaggero) E’ un Berlusconi multitasking il Berlusconi di ritorno. Sta su ogni televisione ma cerca, per quel che può, di non far coincidere l’ubiquità con l’uniformità. Differenzia il format. Diversifica il messaggio, a seconda della platea televisiva che ha di fronte. Nell’intervista a Italia 1, considerata una rete vista dai giovani e soprattutto del Nord, il Cavaliere fa il post-ideologico. Riduce al minimo gli accenni alle bandiere rosse e ai soviet, di cui quelli se ne infischiano. E parla quasi soltanto di Milano. Non da milanese eccellente, ma da primus inter pares, non da padre della città ma al limite da zio: «Io che sono un milanese…, io che sono un cittadino di questa città… io mi rivolgo ai concittadini….». Qui è prudente, e infatti legge il gobbo per non farsi tentare dall’improvvisazione che produrrebbe toni forti, mentre al tiggì di Emilio Fede, fra i pasdaran, è sferzante e più crudo. Dice che la sinistra «è violenta», quando invece nelle altre reti – ieri è stato su quasi tutte, e anche al Gr – si limita a definirla «estremista» o «radicale» o «filoislamica». Islam, ma in salsa italiana? E’ la nuova frontiera polemica del Berlusconi modello ballottaggi. Di giustizia parla meno del solito (ma agli spettatori del Tg4 promette che metterà in riga i pm) e si vede che questa semi-mancanza lo fa soffrire. Viceversa, dal Tg1 al Tg5, dal Tg2 a Radio Rai, gli «zingari che con la sinistra sono liberi di costruire baracche», o Milano che rischia di diventare «Zingaropoli» o una «città islamica» o la «Stalingrado d’Italia», diventano il cuore tematico della tentata riscossa del Cavaliere. Il set scelto per le sue apparizioni è sempre uguale: dietro a Berlusconi, seduto alla scrivania e con una penna fra le mani, si vede una rassicurante tenda bianca, le bandiere istituzionali (italiana ed europea) e il logo rotondo del Pdl con su scritto «Berlusconi presidente». Al Tg5 si sente di casa, ed è più spigliato, gesticola maggiormente, sorride spesso. Al Tg1, più fermo. Al Tg4, più caldo. Al Tg2, nomina uno per uno i suoi nemici, ma soprattutto gli amici di Pisapia e di de Magistris: «Si può dare un grande Paese occidentale a Grillo, a Vendola, a Di Pietro? Va fermata la sinistra, questa sinistra che va dai centri sociali al partito delle manette». Le posture del Cavaliere si differenziano un po’, i temi variano leggermente a seconda dell’uditorio, ma l’obiettivo è comune a tutti i format scelti: «Riconquistare la fiducia», parole sue, di quegli ex berlusconiani intiepiditi che non sono andati a votare al primo turno. «C’è stata un’astensione dei moderati – spiega – che però non hanno scelto il Terzo Polo». Eccoli, i riconquistabili. E a Milano, il 32,5 degli elettori è restato a casa. Berlusconi non chiama mai per nome la Moratti (non ritenendola un brand vincente). De Magistris lo definisce, al Gr, «uno dei tanti magistrati giustizialisti entrati in politica con la sinistra». Pisapia non lo nomina mai, per non dare l’idea di un rischioso derby fra Giuliano e il Cavaliere. E non dice neanche «lui» o «il nostro avversario», non lo incarna in nessuna figura, lo considera un’entità: la «sinistra» dei centri sociali, dei rom e delle tasse. Il massimo del concretismo – ossia del pentimento rispetto alla campagna ideologica del primo turno – Berlusconi lo raggiunge nella lunga elencazione dei problemi milanesi, dall’Expo all’Ecopass, che regala al Tg1 anche parlando della vivibilità cittadina degli «anziani» e dei «bambini». Il massimo della simultaneità lo raggiunge quando, a distanza di mezzo secondo, usa le medesime parole al Tg1 e al Tg5: «I napoletani hanno castigato il disastro politico e amministrativo della sinistra». Le parole sono forti, ma i toni flautati. Quasi ovunque. Si sforza di non fare il Rodomonte o il ghe-pensi-mi, del resto non è aria, ma sbotta nell’intervista con il principale tiggì di Mediaset: «L’opposizione esulta? Dovrebbe piangere!». Si va avanti così, tra rabbia (trattenuta) e prudenza (autoimposta con notevoli libertà). La drammatizzazione sui clandestini che «invadono» e sulle moschee che si moltiplicano serve a trasmettere al popolo della destra che il forzaleghismo, quell’unità identitaria e politica fra Berlusconi e Bossi solitamente premiata dagli elettori, esiste ancora e sempre di più e le recenti divisioni sono state superate. Tra tante parole e nuove promesse («sono in campo ogni giorno»), Berlusconi però non ha detto se andrà sui palchi insieme a Letizia Moratti e se farà comizi con Bossi. Forse è più facile fronteggiare il nemico esterno (la sinistra islamizzante) che fare chiarezza rispetto agli alleati interni.