Nei giorni passati mi sono dimenticato di segnalare l'uscita su Doppiozero di un mio pezzo dedicato al cinema, la memoria e lo spazio americano (per la precisione lo spazio di New York). Una cosa che mi frulla in testa da tempo e alla quale un anno fa ho dedicato due pezzi su Minima et moralia (li trovate qui e qui). Il progetto vorrebbe e dovrebbe svilupparsi in qualcosa di più ampio, magari un saggio o un libro, ma per il momento ho partorito solamente il pezzo in questione. Si parla di cose che mi piacciono, tipo De Niro che cammina per Times Square in Taxi Driver o l'incubo metropolitano di Fuori orario, e di cose che non mi piacciono, tipo l'ultimo Sorrentino o Shame, che però trovo significative. Si parla soprattutto del fascino che esercita lo spazio di New York, messo in scena dai '60 in poi come uno scenario di frontiera, e su quanto lo sguardo innamorato dello spettatore funzioni da intermediario con le emozioni (o l'assenza di emozioni) dei personaggi. A Cannes, poi, è passato The We and the I di Michel Gondry, film completamente girato all'interno di un autobus scolastico che attraversa il Bronx, e lì, non diversamente dalla Manhattan di Cosmopolis, ho visto una città rivelarsi attraverso i finestrini e mostrarsi in quanto scenario noto di luoghi e facce sempre nuove eppure familiari. Nonostante il degrado, il cemento, la monotonia, ho avuto per l'ennesima volta la percezione di una città unica e irripetibile, bellissima e oscena, il primo e ultimo luogo in cui specchiarsi e osservarsi tra fascinazione, alienazione e disgusto. Cronenberg, oltre il finestrino della sua limo, mette in scena la monocromia del denaro, Gondry invece, con le liti, gli scherzi e gli amori dei suoi adolescenti, la libertà effimera del cazzeggio, entrambi in film fatti di parole e di movimenti a vuoto che conducono e ripetono il nulla. Se non altro so da dove ripartire per portare avanti il lavoro.
Magazine Cultura
Nei giorni passati mi sono dimenticato di segnalare l'uscita su Doppiozero di un mio pezzo dedicato al cinema, la memoria e lo spazio americano (per la precisione lo spazio di New York). Una cosa che mi frulla in testa da tempo e alla quale un anno fa ho dedicato due pezzi su Minima et moralia (li trovate qui e qui). Il progetto vorrebbe e dovrebbe svilupparsi in qualcosa di più ampio, magari un saggio o un libro, ma per il momento ho partorito solamente il pezzo in questione. Si parla di cose che mi piacciono, tipo De Niro che cammina per Times Square in Taxi Driver o l'incubo metropolitano di Fuori orario, e di cose che non mi piacciono, tipo l'ultimo Sorrentino o Shame, che però trovo significative. Si parla soprattutto del fascino che esercita lo spazio di New York, messo in scena dai '60 in poi come uno scenario di frontiera, e su quanto lo sguardo innamorato dello spettatore funzioni da intermediario con le emozioni (o l'assenza di emozioni) dei personaggi. A Cannes, poi, è passato The We and the I di Michel Gondry, film completamente girato all'interno di un autobus scolastico che attraversa il Bronx, e lì, non diversamente dalla Manhattan di Cosmopolis, ho visto una città rivelarsi attraverso i finestrini e mostrarsi in quanto scenario noto di luoghi e facce sempre nuove eppure familiari. Nonostante il degrado, il cemento, la monotonia, ho avuto per l'ennesima volta la percezione di una città unica e irripetibile, bellissima e oscena, il primo e ultimo luogo in cui specchiarsi e osservarsi tra fascinazione, alienazione e disgusto. Cronenberg, oltre il finestrino della sua limo, mette in scena la monocromia del denaro, Gondry invece, con le liti, gli scherzi e gli amori dei suoi adolescenti, la libertà effimera del cazzeggio, entrambi in film fatti di parole e di movimenti a vuoto che conducono e ripetono il nulla. Se non altro so da dove ripartire per portare avanti il lavoro.
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