Ogni giorno di più mi accorgo che c’è una certa Italia (di sinistra) che non vuole cambiare. Vuole rimanere cristallizzata nel mito dell’antifascismo del dopoguerra. Vuole rimanere ancorata… anzi, aggrappata con le unghie e con i denti alle sue nefaste conseguenze: al mito del ‘68, al sindacalismo rosso, all’immobilismo lavorativo, allo scioperismo a oltranza, al distillato del più becero statalismo comunista e all’antimodernismo del quale ne è espressione e nel contempo genesi. Vuole coltivare e alimentare il conservatorismo, quello vero, quello dissimulato nel falso progressismo antifascista, dove conta il portafogli, il carnet dei privilegi, i salotti buoni e l’irresponsabilità per legge che chiamano «diritti». Che si fottano poi le nuove generazioni, i giovani che studiano e sognano una realizzazione di vita. Che si fottano e aspirino pure a diventare «reginetti» o «veline» di qualche ridicolo talent show o del Grande Fratello di turno, visto che per loro non ci sono valide alternative. Che partecipino pure con speranza ai programmi tv che offrono in diretta un lavoro a tempo indeterminato (il mito), e magari attendano con trepidazione che lo Stato, se non decide di indire il megaconcorso pubblico definitivo (dove tutti vengono assunti a spese della collettività), emetta il «gratta e vinci un lavoro», che magari è più democratico.
Si potrebbe azzardare che a questa Italia piace vivere così: una dolce vita perenne, dove trionfa il buonismo tronfio e ipocrita dell’ideologia egemonica. Un’Italia dove si scambia, per evidenti ragioni politico-ideologiche, il diritto all’istruzione per il diritto allo stipendio. Un’Italia dove si pretende che a decidere le politiche industriali delle aziende siano le segreterie sindacali e non chi rischia di tasca propria il capitale per farle produrre. Un’Italia dove la giustizia è una bilancia starata, e la speditezza o la lentezza di un processo (e il processo stesso, magari) varia a seconda del processato, e dove per i magistrati vige il principio contrario a quello che informa tutte le azioni umane: il magistrato che sbaglia non paga mai. Un’Italia dove in televisione, se non va in onda la banalità privata, va in onda la becera faziosità politica pubblica. Un’Italia dove la cultura è ancorata tutt’oggi a una visione parziale, gretta e crepuscolare della conoscenza; una conoscenza dove prevale il pregiudizio e la discriminazione intellettuale basata su ragioni politiche.
Poi però non lamentiamoci se ancora siamo immobili come statue di sale, affogate nei falsi miti dell’antifascismo sessantottino e non. Non lamentiamoci se il mondo va avanti spedito come un treno, e – lasciandosi alle spalle la storia – progredisce senza di noi ancora divisi dalla storia, mentre i cinesi (che del comunismo ne hanno fatto un business autoritario) invadono i nostri mercati con i loro prodotti scadenti e le nostre aziende – soffocate dalle più disparate rivendicazioni sindacali antidiluviane e da una pressione fiscale assurda per mantenere uno Stato sociale ancora più assurdo – chiudono i battenti o fuggono all’estero. Non lamentiamoci se a gestire i conflitti armati vicino a casa nostra, poi intervengono gli americani o i russi, o addirittura i cinesi, mentre noi ci trastulliamo con i girotondi pacifinti. Non lamentiamoci se le nostre coste sono invase da una moltitudine di disperati che hanno scambiato il nostro paese per il paese di Bengodi o la repubblica di Bananas. Del resto, tutto questo la sinistra lo chiama progresso, integrazione e multiculturalismo. E non lamentiamoci se poi, in nome di questa (pesudo)integrazione multiculturale, le nostre città sono diventate enormi cassonetti di spazzatura, dove bazzica il peggio dei peggiori bronx americani, ma senza (ahimè!) il sogno americano e la ricchezza degli americani, che sono tutto un altro paio di mani e cervelli.
Insomma, non lamentiamoci di questa strana Italia a cavallo tra la macchietta e il revival marxista, quando l’unica motto di orgoglio nazionale è la difesa ideologicamente ottusa dei riti e del simbolismo antifascista, quasi fosse una religione di Stato con i suoi sacerdoti, i suoi dogmi, e la sua bibbia. Non lamentiamoci, se poi questa religione ha ridotto la nostra identità nazionale a un qualsivoglia tifo calcistico, mentre il nord sogna la Padania. Non lamentiamoci se poi esistono politicanti che pretendono di annullare o cancellare quel che resta della nostra italianità, solo perché urta l’immigrato di turno, il quale magari si sente offeso dalla parola «Natale» o dalle lucine colorate dei presepi, o peggio, si sente urtato da quel povero Cristo in croce nelle aule delle scuole o dei tribunali. Non lamentiamoci affatto, perché questo è il risultato dell’abbraccio soffocante e mortale che la sinistra ha dato all’Italia dal dopoguerra in avanti. Un abbraccio che non vuole lasciare e che ci obbliga solo a sognare una grande Italia, protagonista nel mondo, nazionale e moderna, presidenziale e federale, e con uno Stato sociale efficiente e leggero, al servizio del cittadino e non delle lobby clientelari nate all’ombra della partitocrazia antifascista…
Autore: Il Jester » Articoli 1379 | Commenti: 2235
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Tags: antifascismo, comunismo, conservazione, italia, italia conservatrice, progressismo, sessantotto, sinistra Potrebbero interessarti anche:
Io non mi lamento.
Riconosco che l’Italia non va avanti per una ristretta cerchia di ottusi che vantano il loro bel 6 politico. Ma ho fiducia in quella maggioranza, che silenziosa, ma operatrice, riesce comunque a tirare la carretta, e a far si che l’Italia non affondi nella melma comunista.
Condivido l’amarezza nel testo qui sopra, e la sottoscrivo. Ma come i volti effigiati sulle monete, alzo la testa e guardo oltre lo stagno, dove vedo erba verde e rigogliosa.
Li un giorno giungerà l’Italia, spero prima della mia dipartita, almeno potrò profferrire il più classico: “Io lo sapevo!!“