Di certo l’analisi dei dati contenuti nel report pubblicato recentemente da Eurostat General government expenditure in 2011 – Focus on the functions ‘social protection’ and ‘health’ induce anche un lettore non particolarmente esperto a trarre delle conclusioni per così dire scontate. Ad esempio, è difficile non notare, e alcuni lo hanno già fatto, come l’Italia, il paese che detiene quasi la metà del patrimonio artistico mondiale, sia ultima nell’Unione per spesa in cultura, spettacolo e diritti religiosi e penultima, dietro alla Grecia, per spesa in educazione. Per intenderci, Cipro investe nell’istruzione il 15,6% della propria spesa corrente, il Portogallo il 12,9%, la Polonia il 12,8%, la Bulgaria il 10,2% e l’Italia l’8,5%. Il dato è evidente e allarmante, soprattutto se si tiene conto del fatto che ad oggi l’istruzione è considerata da gran parte degli esperti1 un bene rifugio sicuro e a cui sono associati margini socioeconomici molto interessanti. La Banca d’Italia, in un occasional paper del settembre 2009, aveva già posto all’attenzione delle autorità nazionali e regionali le possibilità di ritorno economico dell’investimento in istruzione (tra il 7 e il 9%) e welfare state (tra l’8 e il 9%), rimandando la valutazione degli effetti sociali, certamente ancor più rilevanti, a un’analisi più approfondita2.
La lettura critica di questi due dati disaggregati, di per sé comprensibile e lodevole, accrediterebbe la società italiana come gretta e ignorante, la classe politica come ottusa e poco lungimirante. Eppure, a leggere con attenzione il documento di Eurostat, incentrato peraltro sulla spesa sociale e sanitaria, il quadro che si delinea è ben più sinistro. L’Italia si pone al di sopra della media europea (EA 17) per quel che riguarda la spesa in Servizi Pubblici Generici (17,3% contro una media del 13,8%), Difesa (3%, contro una media del 2,7%) e Ordine Pubblico (4%, contro una media del 3,7%), è sostanzialmente in linea con la spesa europea per quel che riguarda la Protezione Ambientale (1,8%, contro una media del 1,8%), Servizi Medici (14,7%, contro una media del 14,9%) e Welfare State (41%, contro una media del 40,7%), infine insegue gli standard comunitari negli Incentivi Economici (7,1%, contro una media del 8,4%), nell’Edilizia Pubblica (1,4%, contro una media del 1,8%), nella spesa in Cultura, Spettacolo e Diritti Religiosi (1,1%, contro una media del 2,2%) e in Istruzione (8,5%, contro una media del 10,1%). Volendo approfondire il dato, è possibile fare ulteriori osservazioni.
Il capitolo Servizi Pubblici Generici, se scomposto, appare trainato dagli interessi sul debito, pari a oltre la metà del totale. La spesa per la Difesa, seppur superiore alla media europea, è affetta da una sproporzione pericolosa tra i costi legati al personale rispetto agli investimenti e alle spese di esercizio. Le spese per il personale sono previste per il 2012 pari a oltre il 70% del budget, contro una media del 50% per gli altri eserciti europei3. Va inoltre sottolineata la dimensione dei costi legati alla condizione economica estremamente privilegiata degli ufficiali superiori, di cui è misura esemplare l’indennità ausiliaria, vestigia risalente alla Guerra Fredda che pesa sul bilancio della Difesa per 431 milioni di euro nel 20124. Il peso delle missioni all’estero è molto contenuto (inferiore allo 0,1% del PIL). L’Ordine Pubblico si presta da altre interessanti considerazioni. L’Italia, difatti, si trova in linea con la maggior parte dei paesi europei per quel che riguarda le spese per il personale (con la sola eccezione della Germania che spende notevolmente meno e dell’Inghilterra che spende circa il doppio), pur avendo un numero di addetti decisamente superiore alla media5.
Inoltre, è da notare come l’Italia, il paese con più processi pendenti d’Europa, spenda per i propri tribunali quanto spende, in percentuale, la Germania, il cui sistema sociale e l’ordinamento giuridico, però, concorrono a produrre un numero di procedimenti assai inferiore e un loro svolgimento assai più rapido6. Infine, parrebbe di poter affermare che l’Italia è un paese che ha un occhio di riguardo per la condizione dei propri detenuti, spendendo per le proprie strutture il doppio di Francia e Germania, le quali contano però una popolazione sottoposta a restrizioni di varia natura di gran lunga inferiore a quella italiana7 (l’Italia, difatti, si affida a pene detentive alternative alla carcerazione in misura assai minore – dieci volte meno di media – rispetto agli altri grandi paesi europei). Purtroppo, i recenti richiami sulla situazione delle carceri italiane lasciano immaginare che dietro a questo flusso sostenuto di denaro vi sia poca virtù e molta inefficienza, se non malaffare.
Il dato sulla spesa a sostegno dell’ambiente, di per sé incoraggiante, è da inquadrare all’interno degli impegni presi con l’Europa per il protocollo 20-20-20, e segnala comunque il ritardo con cui l’Italia si è mossa, in quanto i paesi leader nella produzione di energia da fonti rinnovabili si possono permettere oggi livelli di spesa assai contenuti. Anche grazie a sistemi di incentivazione e investimento pubblico più efficaci di quelli italiani (l’esempio della Danimarca, che punta a una produzione energetica totalmente green per il 2050 ma può permettersi di dedicare al settore meno di un quarto di quanto faccia l’Italia è eloquente8). L’analisi della spesa per il Servizio Sanitario Nazionale e per il Welfare State riserva altri spunti di riflessione. Le spese per la salute del sistema italiano vedono una sostanziale omogeneità con il dato medio europeo, ma un’accentuata sproporzione interna. Difatti, il sistema ospedaliero nazionale occupa una parte del bilancio considerevole, decisamente superiore alla media, al contrario del finanziamento al singolo (ticket, fornitura di apparecchiature mediche specifiche e prestazioni mediche gratuite) e del servizio a domicilio.
Per quel che riguarda la spesa sociale, è impressionante il dato sulle pensioni: l’Italia spende il 50% in più di Germania e Inghilterra, e quasi il doppio rispetto alla Spagna, mantenendosi al solo livello della Francia, che però ha una spesa sociale complessiva, compresa l’edilizia pubblica, decisamente superiore. Oltre due terzi della spesa sociale italiana è assorbita dal sistema pensionistico (a fronte di un 50% in Germania, Inghilterra e Spagna e di circa un terzo per la Danimarca). Decisamente inferiore alla media europea la spesa per la disabilità e l’invalidità9 (il confronto con i paesi del Nord Europa appare in questo campo deprimente), per la famiglia (con l’unica eccezione della Spagna che però compensa con un alto tasso di natalità assente in Italia), per il sostegno della disoccupazione e l’edilizia popolare. Ampio scarto positivo, invece, per le pensioni di reversibilità. Infine è da notare come, nelle spese di incentivazione dell’economia, l’unico campo in linea con la spesa europea sia quello dei trasporti, storicamente legato alle grandi compagnie (sia per la realizzazione delle infrastrutture, che, parzialmente, per l’utilizzo finale).
Il quadro che si ottiene, così, dalla lettura del report, appare assai più cinico e strutturato di quel che potrebbe apparire da una lettura disomogenea. Quella che viene descritta è un’Italia individualista, classista e gerontocratica. Il profilo descritto appare quello di un’oclocrazia fluida, nella quale le due potenti lobby trasversali degli over-50, oramai la maggioranza della popolazione, e dei proprietari, in possesso, ancora diffusamente, di una delle più grandi ricchezze d’Europa10, sfruttando tangenze e condivisioni d’interessi, hanno bloccato ogni tentativo di erosione dei propri privilegi, o posizioni di forza, a scapito delle categorie meno agguerrite, come i giovani e i poveri. A riprova di ciò, è possibile constatare come l’esplosione della spesa pubblica, e di conseguenza del debito, sia accorsa in contemporanea con gli altri paesi europei (agli inizi degli anni ’70), ma il riaggiustamento di alcuni capitoli di spesa, come quello pensionistico e quello sanitario, ha necessitato almeno una decina di anni (inizio degli anni ’90, sotto la spinta dell’adesione ai parametri dell’UE) in più di quelli che sono stati necessari ai principali bilanci comunitari.
Il modello appare come la fusione dei difetti dei sistemi liberisti e di quelli socialdemocratici: garanzie insufficienti o totalmente assenti per i soggetti più deboli, rimessi così alla propria condizione familiare o a una rete clientelare diffusa, sistema poco dinamico, scarsamente competitivo e inefficiente. Un sistema che premia il patrimonio e penalizza il reddito, nel quale evasione fiscale e lavoro nero garantiscono il benessere di coloro che hanno i capitali e impediscono l’esplodere delle forme più virulente di disagio sociale, anche attraverso il sostegno familiare, tanto vituperato ma sostanzialmente compensativo. Un sistema vecchio, basti pensare alle carenze nel settore dell’assistenza medica a domicilio, in un paese che conta quasi 3 milioni tra invalidi e portatori di handicap, e a quelle relative a forme detentive differenti dalla carcerazione, che permetterebbero di alleggerire le condizioni di carceri patologicamente sovraffollate. Un sistema vecchio, per vecchi. Un sistema che investe tantissimo nella tutela dell’anziano e quasi nulla nei nuovi nuclei familiari, consolidando una realtà in cui, anche a causa di una scarsa propensione a fare figli, i patrimoni si accumulano di generazione in generazione nelle mani di un numero sempre minore di individui, complice anche una legislazione storicamente compiacente sul diritto di successione ulteriormente aggravata da scelte politiche più recenti. Le polemiche legate alla tassazione degli immobili non tengono conto di queste dinamiche di lungo corso che, abbinate all’assenza di edilizia popolare, alla bolla immobiliare dei grandi centri urbani e alla stretta bancaria sui mutui delineano la formazione di un gruppo sociale di tenutari con rendite sempre più consistenti.
Inoltre, la Repubblica italiana appare ferocemente frazionata al proprio interno, nella qualità del rapporto con i cittadini. Carceri, tribunali e ospedali sono infatti accomunati da una forte disparità nella qualità del servizio erogato a seconda della regione nella quale si trovano, e le politiche d’investimento in questi settori non possono che sottolineare il tacito assenso da parte dell’autorità centrale a queste dinamiche. La presenza delle forze dell’ordine è lontana dall’essere omogenea sul territorio, qualsivoglia sia il criterio con il quale si vuole analizzare il dato, e le città la fanno evidentemente da padrone (anche se non proporzionalmente alle proprie dimensioni. Il centro più sicuro d’Italia è infatti Trieste, con 1100 agenti ogni centomila abitanti, seguito da Roma). Infine, appare spietato l’approccio nei confronti delle categorie più deboli, i senzatetto, gli indigenti, i portatori di handicap. In questi campi l’Italia presenta un ritardo rispetto alle grandi democrazie europee imbarazzante. Queste considerazioni portano inevitabilmente a una domanda: il sistema italiano sarà alla lunga compatibile con quello degli altri grandi paesi comunitari? Ai posteri l’ardua sentenza.