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La recente proposta della Lega di sottoporre a un test di conoscenza della lingua italiana quegli stranieri che intendano aprire un esercizio commerciale non sarebbe di per sé scandalosa, ma essa va compresa, ancora una volta, inserendola nel contesto più ampio dal quale è scaturita.
“Le regioni - si legge nella proposta a firma della deputata leghista Silvana Comaroli - possono stabilire che l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di commercio al dettaglio sia soggetta alla presentazione da parte del richiedente qualora sia un cittadino extracomunitario di un certificato attestante il superamento dell'esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati”
A parte il fatto che nella versione proposta dalla Lega fatico a capire chi dovrebbero essere i destinatari della legge: ormai non sono soltanto i leghisti a usare “extracomunitario” in un’accezione non neutra e giuridica, come dovrebbe essere, ma marcatamente negativa ed etnica, sebbene con un referente necessariamente imprecisato. Il razzismo si sedimenta nel linguaggio. Ma se devo intendere la parola “extracomunitario” nel suo esatto significato, la prima osservazione che mi viene naturale fare è che non si capisce perché quel test, anche se volessimo accettarne l’utilità e la necessità, non dovrebbe essere somministrato anche a cittadini comunitari e agli stranieri in generale, visto che non esiste a priori alcuna garanzia che questi ultimi parlino e capiscano l’italiano meglio di un “extracomunitario” (per tacere qui di non pochi italiani). Un cittadino francese, dunque comunitario, o romeno, anch’egli comunitario, oppure tedesco, per dire, che non parli l’italiano si troverebbe per caso in una condizione di vantaggio rispetto ad un cingalese o un senegalese che non parlino l’italiano?
Ma è evidente che per qualcuno “extracomunitario” non indica più una condizione giuridica ma una pericolosa alterità dalla quale è necessario difendersi.
Forse sarebbe il caso di guardare a modelli più evoluti. Ho avuto la fortuna di vivere un anno in Danimarca; lì vengono organizzati corsi di lingua gratuiti e di ottimo livello per stranieri perché l’apprendimento della lingua viene considerato, a ragione, strumento fondamentale e precondizione per una buona integrazione. I corsi sono finanziati dallo Stato ed erogati dal comune. È logico: si mettono i nuovi cittadini o i futuri cittadini nelle condizioni migliori per imparare la lingua.
In Italia sulla scia della Lega si chiede non ai nuovi cittadini (da noi è rarissimo parlare in termini di cittadinanza riferendosi a stranieri) ma agli “extracomunitari” di accettare i valori della comunità ospitante compreso l’apprendimento della lingua, ma non si capisce come questo dovrebbe avvenire, se non tra mille difficoltà del migrante visto che, a differenza della Danimarca, non esiste nulla del genere e, tranne virtuose eccezioni dovute ad illuminate amministrazioni locali, l’organizzazione dei pochi corsi di lingua italiana per stranieri gratuiti è affidata ad associazioni di volontariato, spesso confessionali.
Scontiamo già un ritardo cronico, che la xenofobia della Lega e le politiche sull’immigrazione e l’integrazione della maggioranza di certo contribuiscono ad aumentare. Qualcuno mi fa notare che la virtuosità dei Paesi nordici in questo campo, come dimostrano in Inghilterra alcuni provvedimenti del “laburista” Gordon Brown, non è più così esemplare. D’accordo, ma esiste almeno un’ossatura solida, risultato di decennali politiche di buona integrazione basate sui diritti e la dignità della persona.
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