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L’odifreddura della settimana: Roberto Saviano

Creato il 17 marzo 2013 da Uccronline

Roberto SavianoL’odifreddura della settimana l’ha vinta ancora una volta Roberto Saviano. Lo scrittore aveva conquistato l’ambito premio anche la scorsa volta, dividendolo a metà con Gianni Vattimo, quando su Twitter aveva temuto che le dimissioni di Benedetto XVI «fossero strategiche per la campagna elettorale: mostrare la fragilità della Chiesa per chiedere compattezza al voto cattolico. Sarebbe terribile se fosse così».

Questa volta si è lanciato in una crociata a 360° contro i “tabù della sessualità” nella società italiana, come recita il titolo del suo intervento. E quali sono secondo lui questi tabù? Sono «le coppie di fatto, le unioni e le adozioni gay, il fine vita. Per non parlare delle condizioni nelle carceri e della legalizzazione delle droghe». La colpa? Ovviamente della Chiesa, cioè degli sporchi cattolici che Saviano ha già preso di mira in passato quando ha setenziato: «I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto». Secondo Saviano, invece, «in una società sana, incline al cambiamento, non ci sono limiti ai diritti che è possibile ottenere senza sottrarre attenzione alle scelte economiche». Secondo Saviano, dunque, i Paesi in cui le rivendicazioni omosessuali, l’eutanasia e la droga libera non sono legali, sarebbero società insane, dunque malate, da curare a suon di ideologia. Fa sorridere più del resto leggere che la droga libera, elencata tra i tabù che si dovrebbero abbattere, sarebbe per Saviano il sintomo di una società sana…Da notare ancora la fantastica contraddizione di Saviano, notata anche da Gennari su Avvenire. Prima dice che sulle tematiche sopra citate ci sarebbe un “consenso unanime”, poi però rinnega tutto, leggiamo: «su questioni che vedono spesso un consenso pressoché unanime nella società civile, la politica ancora si nasconde dietro il velo di presunti temi etici. Altro non sono che tabù che fa comodo mantenere per non perdere voti». Ma i voti di chi? Non c’era mica un “consenso unanime”??

Soffermiamoci in particolare sull’affermazione che non dovrebbero esserci limiti al conferimento di diritti, ovvero chiunque potrebbe rivendicare un suo desiderio come un diritto. Quella del desiderio-diritto, espressa perfettamente e inconsapevolmente da Roberto Saviano, è una deriva molto comune: «alla parola “diritti” è ormai associata una tale connotazione emotiva positiva da poter essere utilizzata per persuadere e ottenere la fiducia di chiunque: il diritto è quindi divenuto anche un efficace artificio retorico», spiegano i magistrati Guido Piffer e Tommaso Emilio Epidendio. Siamo all’interno di una fase storica in cui «si assiste alla rivendicazione come diritto di qualunque pretesa soggettiva, cioè di qualunque desiderio, espressione di una concezione dell’esistenza individualistica (ciò che esiste è solo il singolo con le proprie aspirazioni) e relativistica (non esiste nessun criterio oggettivo di giudizio esterno al soggetto)». E ancora: «si potrebbe dire che la categoria del “diritto-desiderio” è espressione di una mentalità in balia del sentimento». Inoltre, ha spiegato Claudia Mancini in questa riflessione, «un desiderio autoreferenziale, abbandonato a se stesso, e che si nutre di sè, è destinato, però, ad una pericolosa ipertrofia: il desiderio si trasforma in bisogno [...]. Il desiderio della continua affermazione di sé moltiplica bisogni, che reclamano diritti, e che spostano i limiti. Ma il limite non viene mai eliminato, si sposta solo, generando altri desideri che determinano nuovi bisogni, che reclamano ancora diritti, in un processo infinito che vanifica il fine stesso del desiderio autarchico: affermare se stessi in maniera soddisfacente.».

Lo ha sottolineato anche il filosofo Umberto Scarpelli, spiegando: «La parola ‘diritto’” si è caricata nella storia della cultura di una forza emotiva favorevole e intensa, sino a costituire uno strumento retorico di notevole efficacia. È molto più inquietante e persuasivo … pretendere qualcosa come proprio diritto, che non farne l’oggetto di una invocazione o preghiera affidata alla buona volontà del destinatario» (U. Scarpelli, Diritti positivi, diritti umani: un’analisi semiotica, cit. p. 39).

Anche Lucio Pegoraro, ordinario di Diritto pubblico comparato presso l’Università di Bologna ha criticato «la pretesa o l’interesse alla tutela di una posizione soggettiva» che vorrebbe equivalere «alla sua effettiva protezione in ciascun ordinamento [...]. Se l’immigrato rivendica il diritto all’assistenza dicendo “ho diritto a curarmi senza il rischio di essere denunciato”, o l’omosessuale afferma che ha diritto a vivere la propria sessualità e a sposarsi come qualsiasi altra persona, in effetti stanno dichiarando esattamente l’opposto, ossia che non hanno alcun diritto. Manifestano pretese di vantaggio non riconosciute, in nome di una cultura che sembra ormai matura per ampliare la sfera dei riconoscimenti. Il fatto è che possono farlo solo se questo è il presupposto. In altri climi e in altri luoghi e in altri tempi, probabilmente neppure si sognerebbero di avanzare tali rivendicazioni. Gli studiosi di formazione giusnaturalista e idealista danno corpo con le loro teorie a tali rivendicazioni, che scollegano dalla storia, dalla geografia, dalla politica, dalla sociologia, dall’economia, dall’antropologia, offrendo la base per rivendicazioni di “diritti” che tali non sono in senso positivo, commisurate a un ordinamento ideale, che tuttavia, ahimè, sono pur esse figlie di particolari influssi culturali, generati dalla lunga e faticosa storia delle lotte e delle dottrine politiche occidentali che le hanno accompagnate». Quindi, ha concluso Pegoraro, «va denunciato l’abuso della parola “diritto” nel linguaggio giuridico, per designare qualsiasi “interesse” non ancora protetto in qualche misura all’ordinamento [...]. Gridando sempre “al lupo”, quando il lupo non c’è, nessuno crederà più al pericolo del lupo, quando questo arriva davvero» (L. Pegoraro, Esiste un “diritto” a una buona amministrazione? (Osservazioni critiche preliminari sull’(ab)uso della parola “diritto”), Istituzioni del federalismo, 5/6.2010).

Ancora una volta Saviano appare confuso su quel di cui vuol sentenziare, arrivando anche ad affermazioni bizzarre, come abbiamo visto. Sorprende infine la sua confessione di usare gli scritti di Mircea Eliade come «bussola per orientarmi nella modernità». Peccato che il celebre scrittore e storico delle religioni rumeno la pensi esattamente al contrario di Saviano. Nella sua monumentale opera, Enea ha infatti mostrato il fallimento a lungo termine della secolarizzazione e del laicismo, poiché nell’uomo -ha spiegato- esiste un senso religioso innato, che è una componente ineliminabile della società umana. Sarebbe davvero positivo che Saviano si faccesse davvero orientare dagli scritti di Eliade, magari eviterebbe affermazioni come quelle appena da noi criticate.


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