Una qualità del libro “L’amore dell’ultimo milionario” (di Francis Scott Fitzgerald, casa editrice Alet) è il valore aggiunto che contiene. Non ho ancora letto il romanzo, ma ci sono delle perle quali una pagina manoscritta di Scott Fitzgerald; un paio di immagini dello schema dei capitoli previsti dall’autore. E infine lettere e appunti di lavoro.
Ficcare il naso nella cassetta degli attrezzi di un autore è una delle abitudini (o ossessioni?) di chi scribacchia. È il sogno di trovare in quelle parole, e frasi, la scintilla che ha fatto scoccare tutto. Una scintilla che persino l’autore non ha visto in maniera nitida; l’ha maneggiata però, è rimasto scottato forse.
Quando Scott Fitzgerald inizia a pensare a questo romanzo, è già considerato uno scrittore finito. Per alcuni è morto (e alla sua morte, più di uno resterà sorpreso dalla notizia, perché lo considerava a porta inferi da un bel pezzo).
Sarà un romanzo di cinquantamila parole. Siccome ne dovrò scrivere sessantamila, per lasciare spazio ai tagli, ho pensato che ci vorranno quattro mesi – tre per la scrittura, uno per la revisione.
Non si sente profumo di officina? Di laboratorio? È per me quasi incredibile che prima di iniziare lui avesse già idea di quante parole e dei mesi necessari per arrivare alla conclusione del romanzo. Certo, spesso si tratta di indicazioni di massima, perché come si sa non si rispettano quasi mai. Se tutto andasse liscio come l’olio, allora sì; ma è impossibile.
C’è un altro aspetto che merita di essere menzionato.
Quando si comincia a gettare giù le basi di una storia complessa come quella di un romanzo, in verità è da mesi che ci si lavora sopra, in un modo o nell’altro. Si scrivono appunti, o si immagazzina nel cervello luoghi e ambienti. Non c’è niente di aulico nello scrivere, esiste solo la fatica di cominciare a fare ordine, individuare il cuore che rende vivo l’ammasso di parole sulla carta, e dopo si inizia sul serio.
Qualche riga dopo Scott Fitzgerald svela di avere scritto una sessantina di pagine di appunti e traccia. La cascina è piena di legna, insomma, si può affrontare con una sufficiente dose di folle determinazione l’avventura del romanzo.
(…) adesso che sono tornato a stare bene.
Piccola parentesi, ma toccante. Noi sappiamo che la fine si sta avvicinando (scrive queste frasi nel 1939, morirà un anno dopo nel mese di dicembre), lui è entusiasta come qualunque scrittore che ha trovato LA storia. Come chi scova un giacimento aurifero; una perla in un campo. A quel punto non c’è altro che quello, ogni fibra del corpo è in mano alla storia, e l’autore è solo un bravo maggiordomo al suo servizio.
“Solo” per modo di dire: presso i Franchi il maggiordomo era colui che sovrintendeva al buon andamento della casa. La sua opera era cruciale, e una storia è (anche) una casa dove il lettore si accomoda e (si spera), troverà tutto di suo gradimento. Sempre ricordando che ciò che lui pensa sia necessario avere in quella nuova dimora, non è detto che lo scrittore lo ritenga altrettanto indispensabile.
Nelle pagine seguenti descrive con accuratezza la storia: non è fumosa, ma cornice, e basi sono già pronte a sostenere il peso della costruzione.
(…) e sono abbastanza sicuro di aver studiato tanto a fondo il suo carattere (…)
Già: studiare. E pure a fondo.
Qui lo scrittore statunitense parla del protagonista di questo romanzo. Non ci sono Muse che in metropolitana dall’Olimpo a Los Angeles, arrivano alla soglia di casa di Scott Fitzgerald a recapitare la storia. L’autore modella su un produttore di Hollywood davvero esistito il suo eroe (ammesso che abbia senso parlare di eroi nei romanzi di Scott Fitzgerald). Lo conosce a fondo. Attenzione però: per l’ennesima volta ecco scattare l’allerta. Non si tratta affatto di prendere la realtà e ficcarla nella pagina. Scrivere è sempre manipolazione.
(…) ma sarà anche evidente che non un solo fatto è realmente accaduto.
Il corsivo non è mio.
Mi pare che il buon Scott affermi quello che qualunque scribacchino con un po’ di talento intuisce da sé. Studiare il carattere di una persona non significa affatto che ci si limita a copiare sulla pagina reazioni ed eventi accaduti. Si studia come si studierebbe il funzionamento di un tornio parallelo se questo fosse un elemento importante di una certa scena.
Il carattere è l’elemento in grado di dirci di più su quel preciso protagonista. Si verificheranno degli eventi ai quali reagirà in un certo modo, e dovrà forse adattarsi, o ribellarsi a essi, chissà. La relazione tra il protagonista e il mondo esterno è ciò che rende la storia viva, e almeno interessante.
Esagerando un po’: una storia (grande o piccola non importa), è sempre una tragedia non perché muoiono tutti. O accadono catastrofi. Ma perché si scatena qualcosa che costringe i protagonisti e affini ad abbandonare alcune certezze per approdare da nessuna parte, forse. O per abbracciare nuove certezze. C’è (o ci deve essere), un fatto che stana il personaggio e lo induce a uscire allo scoperto. Lì si misura il suo grado di bestialità o umanità. Cresce o muore. Progredisce o si perde.
Qualunque sia l’esito della vicenda, ci deve essere una relazione, un’influenza degli eventi sul personaggio, o di qualcuno su di lui. Per questo è necessario studiar. Se qualcuno pensa che con la scrittura comincia la pacchia, si sbaglia di grosso.