Magazine Società

L’Ombra dello Scorpione, con vent’anni di ritardo

Creato il 14 marzo 2012 da Paperoga

L’Ombra dello Scorpione, con vent’anni di ritardo

Nella primavera del 1993 mio fratello Pfaff si fece prendere dalla febbre di Stephen King.
Comprò praticamente ogni suo romanzo in versione paperback e la sua vita sociale finì lì per qualche mese. Se ne stava rintanato in camera a leggere avidamente per pomeriggi interi, e non avendo mai visto mio fratello leggere null’altro che le indicazioni nutrizionali sulla confezione dei Kellogg’s Cornflakes, ed essendo io per l’inciso il topo di biblioteca della famiglia, cominciai ad essere incuriosito da questa subitanea illuminazione letteraria.
Ai tempi la nostra fraterna comunicazione si limitava a inespressivi monosillabi, intercalati da qualche vaffanculo e intervallati da pugni dati, morsi resi e lividi ricevuti. Capirete, con questo popò di dialettica e di dialogo, quanto difficile fosse per me capirne di più e sopratutto farmi prestare qualche libro. Ma mio fratello Pfaff, per quanto potesse apparire uno psicopatico che minacciava di accoltellarmi due volte al giorno (e non senza ragioni che reggerebbero facilmente in tribunale, devo ammettere), era anche e sopratutto un buono, ed aprì a richiesta il suo scrigno di libri perchè potessi leggerne anch’io.
Fu così che l’anno scolastico 1993-94 fu dedicato, ben più che all’esame di maturità o ad altre stupidaggini del genere, alla avida lettura dello scrittore americano. Ricordo che cominciai con “Finestra segreta, giardino segreto”, racconto del formidabile “Quattro dopo mezzanotte” e continuai poi con Salem’s Lot, A volte ritornano, Shining, Stagioni Diverse e chi più ne ha più ne metta. Lessi Misery in pulmann durante la gita di terza liceo da Lecce a Parigi, quasi cagandomi nelle mutande esattamente tra Aosta e Lione.
Su tutti, prevedibilmente, la spuntò It, quel bestione da 1200 pagine che divorai in due settimane perdendo la cognizione del tempo e dello spazio. Rimase il mio preferito nonostante Pet Sematary, i Langolieri e Dolores Claiborne. Forse solo il Signore degli Anelli, letto solo anni dopo, seppe coinvolgermi di più.
In tutto questo, tornando al 1993/94, visto il mio accanimento non minore del suo, mio fratello Pfaff continuava a domandarmi perchè tra tutti i libri letti continuassi a snobbarne uno, ovvero perchè non leggessi l’”Ombra dello Scorpione”. Gli rispondevo che di prendere in mano un altro tomo di dimensioni medievali non c’avevo nè voglia nè coraggio. Fu così che, passata la sbornia da Stephen King, quel libro rimase non letto non solo per tutti gli anni ’90, ma anche per il primo decennio del nuovo secolo.
Fino ad un mese fa. Quando per puro caso me lo sono trovato nelle mani. E in tre settimane di viaggi in bus per e dal lavoro, solitari eremitaggi in bagno e letture prenotturne è stato letto, che dico letto, divorato, che dico divorato, ingoiato sano quasi fisicamente.
Eccomi dunque, con ventanni di ritardo, a parlare di “The stand”. E lo chiamo col suo vero nome, perchè francamente io dopo mille e passa pagine non ho capito perchè abbiano tradotto il titolo originale in “L’Ombra dello scorpione”. E non solo perchè di scorpioni non ne ho vista neppure l’ombra (amabile gioco di parole) ma perchè per quanto accattivante, il titolo non rende in alcun modo il significato, o pezzi di significato di questo romanzo.
Recensioni noiose a parte, The stand è un romanzo formidabile, poco da dire. Se ogni tanto si ha bisogno di essere catturati da una dimensione fantastica, avventurosa e “altra” rispetto alla realtà quotidiana, questo libro è sicuramente una delle armi di distrazione dal reale più potenti di cui una libreria casalinga possa dotarsi.
Appassionante nell’incalzare degli eventi, sufficientemente lento da non affrettarli troppo, in equilibrio su una coralità di protagonisti quasi tutti azzeccati, in bilico tra un realismo postapocalittico angosciante e il sapiente brivido del fantahorror.
Non è un romanzo perfetto, per carità, ma francamente di romanzi perfetti ne ho letti davvero pochi nella vita, mostri sacri della letturatura russa e francese compresi. Ma il suo difetto per me sta proprio nell’opposto per cui viene criticato. I detrattori lo ritengono un polpettone eccessivamente lento, che avrebbe meritato un paio di centinaia di pagine di meno. Ecco, per me il difetto di The Stand è che è troppo corto. Avrebbe meritato una collana di libri in cui si dipanassero lentamente gli eventi di quell’anno solare in cui si concentrano le vicende. I singoli protagonisti, sia buoni che cattivi, avrebbero meritato più spazio e più pagine.
The Stand, in definitiva, aveva tutto per divenire una saga come Star Wars o Dune. Invece è tutto concentrato in un libro, per quanto panciuto e scritto fitto fitto. La carne che King aveva messo al fuoco era tanta. La sola folgorante intuizione narrativa dell’epidemia di massa sarebbe bastata a farci due romanzi, ed invece è solo il prologo di tutt’altra vicenda.

Finito il libro, ho pensato che probabilmente è vero che c’è un’età giusta per leggere certi libri. Ad esempio, ho letto tutto Dostoevskij a ventanni, ed ho dovuto rileggerlo dieci anni dopo perchè a ventanni non si capisce un cazzo di niente, figuriamoci se si riesce a penetrare nelle profondità insondabili della mente e della penna di uno scrittore di tale spessore,e portarsi un libro di Dostoevskij in un bar serve solo a farsi venire il tunnel carpale e rimorchiare giovani universitarie. Per leggere Melville o riprendere Balzac, ad esempio, sto aspettando i quaranta. Faulkner e Omero verso i cinquanta. Assieme a Dickens, magari. E ci sono scrittori per i quali non mi riterrò mai in grado di essere degno lettore, così che andranno persi. Nelle notti di inverno, ai primi acciacchi della vecchiaia, però, potrò sempre scaldarmi davanti ad un caminetto con un bel falò di romanzi italiani contemporanei comprati per sbaglio e per fortuna mai letti.
Se dunque è vero che c’è un’età per leggere un certo libro, allora è probabilmente vero che un libro come The Stand andrebbe letto sopratutto quando giovani lo si è per davvero e interamente. Uno stimolo così potente allo sprigionarsi della fantasia è una droga visiva e immaginifica in mano ad un sedicenne molto più di quanto non lo sia per un trenta-quarantenne. Noi adulti rincorriamo, a volte non senza disperazione, un qualsiasi appiglio fantastico a scacciare le ombre di una realtà di cui abbiamo preso ormai totalmente coscienza. Una realtà che ci appare per quel che è: casuale, e per questo crudele, spietata, illusoria, e comunque totalmente demagificata. Un sedicenne cala questi pilloloni di splendida incoscienza in una mente bombardata dalla più disarmante felicità come dalla più sconcertante delle disperazioni, in un corpo che pulsa di sensazioni comunque sempre estreme, e il risultato credo sia molto più esaltante.
Probabilmente per mio fratello 20 anni fa è stato così.
Per me, sul limitare dei 37 anni, mi dico che è un bene che romanzi come questi mi colpiscano ancora. E’ il segno che rimango ancora un giovane cazzeggiatore con la testa  tra le nuvole, dentro al corpo cangiante di futuro quarantenne e dietro le sembianze del compito lavoratore. Una parte di me continua a far frullare nella testa un sacco di stronzate, così come una parte di me continua a considerare quello che vive come un gioco da giocare non appena è possibile.
The Stand, in definitiva è stata una bella annaffiatura di immaginazione irrorata direttamente al cervello. E la prossima volta che Pfaff mi raccomanda di leggere un libro, farò bene a dargli retta.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :