Magazine Diario personale
Cap.1
2.Di luci e ombre.
Affollati come non mai, i corridoi del maniero erano un via vai di domestici. L'inquietudine per l'arrivo dello sconosciuto era stata scacciata dall'eccitazione per quell'inattesa novità. Nessuno pensava più a minacce e anatemi. O quasi.
«Quello è un demonio!»
«Krissa!»
Arrancando tra la folla, due domestiche trasportavano un cesto pieno di lenzuola e coperte pulite.
«Arriva di notte, sotto una pioggia scrosciante, dopo anni che nessuno metteva piede in questo posto», sentenziò Krissa agitando la mano in aria, «Riesci a trovare una sola prova per smentirmi?
«Adesso ha cominciato anche a parlare in una lingua misteriosa...»
«Delira per la febbre!», rise l'altra ragazza che si portò dietro l'orecchio una ciocca rosso fiammante sfuggita alle forcine.
Krissa si fermò all'improvviso, strattonando l'amica che reggeva l'altro manico del cesto.
«Abigail, sei troppo ingenua!» sbuffò.
«E tu leggi troppo», la derise Abigail, mentre le sistemava la cuffietta sui ricci scuri, «ormai vedi fantasmi e banditi ovunque».
Tanto piccola quanto orgogliosa, Krissa socchiuse gli occhi neri in due sottili fessure, incrociando le braccia al petto, nell'attesa che l'amica le porgesse le meritate scuse. Purtroppo per lei, la sua migliore amica si era conquistata un posto nel suo cuore non certo per la sua indole accondiscendente.
«Se fidarsi della signorina Heathbridge è da ingenui, io lo sono», affermò Abigail prendendo l'enorme cesto per i manici. «Credo che tu stia esagerando, Krissa, e credo che, se non la smetti di tenere il naso infilato tra i tuoi stupidi romanzetti, un giorno arriverà la vita a bussare alla porta e tu neanche riuscirai ad accorgertene». Dondolò sotto al peso del bucato e guardò l'altra negli occhi. «Adesso, per favore, aiutami a portare le coperte. La signorina le ha chieste almeno venti minuti fa!», concluse con una lieve sferzata di irritazione nella voce.
No, non c'era nulla che infastidisse Abigail Morrison come correre il rischio di essere sgridata, se non peggio, per una colpa non sua.
Con gesti lenti e pesanti, Krissa prese uno dei manici e ricominciò a camminare verso la stanza che illuminava la fine del corridoio.
«É solo un forestiero che per caso si è perso», continuò Abigail, ma con tono più dolce, «quando sarà guarito, se ne andrà».
Krissa sospirò. «Niente avviene per caso qui», sussurrò, «hai visto anche tu l'altra volta...», si bloccò vedendo lo sguardo dell'amica dilatato dalla paura.
«Io... io non ho visto niente» balbettò Abigail, poi respirò a fondo. «Non esistono demoni, fantasmi o qualsiasi altra cosa tu credi di aver visto l'altra sera nel giardino. Ecco tutto», concluse Abigail ansimando per lo sforzo di controllarsi. «Quell'uomo è un forestiero, se la signorina pensa che...»
«Cosa dovrebbe pensare quella?», la interruppe Krissa, ormai la cesta giaceva a terra.
«Era troppo strano come lavoro», sbuffò, «troppo ben pagato e nessuna referenza. Mia madre aveva detto di non venire!», sbuffò irritata, allontanando Abigail che tentava di farla tacere. «Ora mi trovo costretta ad abitare in un posto isolato dal mondo e alle dipendenze di un donna che sembra uscita da uno dei versetti dell'Apocalisse!»
«Krissa», la chiamò Abigail con voce tremante.
«Sì, per fortuna qui ho incontrato te», sorrise, «come hai fatto tu per due anni, io non lo so, ma, se penso che hai chiesto di lavorare anche per tutti e tre gli anni in cui io rimarrò qui... tu sei pazza!
«Appena scade il contratto io me ne vado da questo posto dimenticato da Dio!», rise per sciogliere la tensione e guardò Abigail, ma, vedendo lo sguardo dell'altra alzarsi terrorizzato oltre le sue spalle, Krissa si voltò piano.
Calma, come l'aria prima di una tempesta, la signora Cavendish era alle spalle della ragazza, e per le ragazze fu peggio che vedere il Diavolo emergere dall'Inferno.
«Nostro Signore non dimentica nulla e nessuno, signorina Johnson», disse con voce ferma, abbassò lo sguardo per osservare Abigail che già si era affrettata a raccogliere le coperte che giacevano a terra.
Le domestiche percorsero il resto del corridoio, in un silenzio che nessuna osò interrompere, con il passo della signora Cavendish alle loro spalle che scandiva il tempo.
«Finalmente».
La voce preoccupata di Euphemia accolse il trio, prima ancora che entrasse nella stanza.
Un mare iridescente di nebbia ammantava l'intera brughiera. Il tenue rumore della pioggia s'irradiava nell'aria gelida.
Il buio del corridoio era vinto solo dalla fiamma della lampada a olio che oscillava ai soffi del vento, come il fumo della pipa.
Quella notte il Maniero sembrava aver ripreso vita del tutto ovattati, ma Goddfriegh non percepiva altro che suoni ovattati. Lo sguardo di Goddfriegh perso nel paesaggio.
Le novità erano sempre un'incognita, fastidiosi inconvenienti che minavano la tranquillità che lui, da anni, si era prefissato di creare tra quelle mura.
Una soffiata di fumo uscì irritata dalla sua bocca.
Appoggiò le labbra al bocchino e tirò ancora, ma non sentì la bocca impregnarsi del caldo aroma di tabacco, né il fumo pizzicargli la gola.
Prese dalla tasca i fiammiferi per accendere la pipa, ma erano impregnati d'acqua. Si osservò le punta delle dita irrigidite dal gelo e chiuse la mano a pugno, socchiudendo gli occhi.
«Pensavo saresti arrivato prima», disse con voce pacata e cordiale. Si voltò con lentezza, mentre uno scricchiolio riecheggiò nel corridoio.
Uno dopo l'altro, i vetri delle finestre si appannarono.
«É molto tempo che qui al Maniero non portavi qualcuno di nuovo», continuò il precettore sistemando la pipa nel taschino.
L'oscurità si concentrò in un punto a mezz'aria. L'ombra strisciò sulle pareti, lungo il pavimento, addensandosi fino a formare una sagoma nera.
La fiamma della lampada si affievolì fino a spegnersi, ma il buio non inghiottì il corridoio.
Non c'erano più tenebre in quel luogo, risucchiato da quell'oscuro padrone.
«É un altro modo per torturarci?», domandò ancora Goddfriegh, senza scomporsi davanti a quell'essere, «oppure è solo per lei, il regalo?».
Una folata di vento gelido lo investì; i vetri s'incrinarono sotto la patina di ghiaccio, ma l'uomo non si lasciò impressionare.
Socchiuse gli occhi, perplesso, mentre l'ombra si scioglieva, dilatandosi a macchia d'olio verso di lui.
La lordura nera si innalzò di fronte a lui, superandolo in altezza, si gonfiò tremante e dalla massa s'irradiarono alcuni tentacoli fluidi. Una fessura informe squarciò la superficie liscia e proruppe in un urlo disumano che investì l'uomo con tutta la sua rabbia.
Il precettore corrugò la fronte, riflettendo. «Non è opera tua, dunque», sentenziò, riprendendo la pipa.
Schioccò la lingua. «Non mi interessa nulla di lui», sospirò al vuoto, «ma lei non osare toccarla», minacciò alla fine incamminandosi verso la porta, senza guardare l'ombra afflosciarsi a terra.
Adagio, il chiarore della fiamma tornò a rischiarare il corridoio vuoto.
L'alba era vicina, era lontana. La coltre di nubi non lasciava filtrare alcuna luce.
La pioggia scendeva con meno intensità, ma il ruggito dei tuoni ancora risuonava furente.
Da quando era riuscita a rimanere nella stanza, si era seduta sulla poltrona accanto al letto e da lì osservava il suo ospite. Con lo scintillio dei lampi negli occhi, Euphemia combatteva la pesantezza delle palpebre.
Un sorriso le tremò sulle labbra.
Non avrebbe chiamato nessuno, anche se si fosse rivelato il Demonio in persona. Voleva stare sola con quello sconosciuto.
In quell'oblio, fino a quando fosse stato un visitatore silenzioso, Euphemia poteva sentire la sua storia, poteva fantasticare su di lui e avere la certezza di conoscerlo. Poteva convincersi che fosse un ragazzino con cui aveva giocato da bambina, ma che poi era dovuto partire per una meta lontana, un amico d'infanzia di cui ormai non conservava ricordi ma che, in cuor suo, aveva sempre sperato di poterlo rivedere.
Poteva essere l'erede di una nobile famiglia ormai in declino, in viaggio per tentare di trovare un modo per portare il nome della propria famiglia ai fasti di un tempo. Oppure, era uno studioso che attraversava l'Inghilterra per scoprire nuove specie e il suo nome sarebbe stato scritto nei libri di storia.
«Povera me», sospirò ridendo piano e si strofinò gli occhi appesantiti dal sonno.
Allungò le braccia sul letto e si raggomitolò per potersi riposare, poggiò la testa sulla spalla del giovane e chiuse gli occhi.
Il respiro del giovane era lento e pesante.
Uno sfrigolio nel camino la fece sussultare, deglutì nervosa alla vista di quel fuoco così vivo, ma si impose di non lasciarsi distrarre da null'altro che non fosse il volto del giovane.
Si alzò per andare a sistemare le braci, ma, prima che potesse allontanarsi, sentì il polso serrato in una stretta gelata.
Urlò terrorizzata, tirando il braccio per liberarsi, ma la morsa si sciolse all'istante e il braccio dello sconosciuto penzolò dal letto. La frenesia della febbre l'aveva spinto a muoversi nel sonno.
Respirando a fondo per riprendere il controllo, tornò al capezzale e scostò i ricci neri dalla fronte sudata del ragazzo che mugugnò qualcosa. Sorrise estasiata.
«Domani il medico sarà qui», annunciò una voce alle sue spalle.
«Signorina, crede sia opportuno?», domandò Goddfriegh con voce roca, osservando la scena nella stanza.
«Credo sia opportuno entrare in una stanza dopo aver bussato», bisbigliò Euphemia, senza muoversi, «credo sia opportuno chiamare un dottore, se una persona è ammalata e, sì, credo sia opportuno lasciare che costui rimanga nel mio Maniero», scandì alla fine, alzando lo sguardo sul precettore stroncando le parole che stavano per sgorgare dalle labbra dell'uomo.
Il precettore annuì senza obbiettare e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Da sola, ancora seduta sul letto, la ragazza ricoprì la mano del forestiero con la coperta e osservò fuori della finestra un tenue chiarore rischiarare il manto oscuro della notte.
L'ospitalità del Maniero era stata uccisa dalla febbre che aveva aperto a sua madre le porte del cielo. Il padre, accecato dal dolore per quella perdita, aveva allontanato ogni viaggiatore, poi, quando anche la ragione l'aveva abbandonato, aveva eletto il Maniero come sua ultima dimora.
Eppure Euphemia, dal giorno in cui aveva preso il potere, non aveva mai trovato un motivo per alleggerire quell'oziosa solitudine a cui era stata abituata fin da bambina.
Avevano bisogno di pace e tranquillità, lei e i suoi fantasmi, ma, nonostante quella sua profonda convinzione, il suo cuore non la smetteva di battere irrequieto.
La solitudine, una delle poche certezze che teneva unite le schegge impazzite che costellavano l'animo di Euphemia Alexandra Heathbridge, aveva trovato il proprio epilogo in quell'incontro inaspettato, turbando la ragazza che credeva ormai di conoscersi, ma, in realtà, non aveva mai neanche cominciato a intuire nulla del tumulto che le vibrava nel cuore.
N.d.A Allora, prima di tutto, vorrei davvero scusarmi per aver lasciato il blog inattivo per così tanti giorni, è stata una settimana distruttiva, 2 esami in 6 giorni, ma avrei potuto almeno dar notizie. Prometto che non accadrà, o almeno che metterò avvisi e quant'altro.
Ora, il capitolo, il bellissimo banner l'hanno creato Cam&Prim due ragazze davvero brave che mi hanno aiutato - e spero continuino anche nei prossimi capitoli - a dare l'atmosfera del capitolo. Che ne dite?
Chi è il ragazzo? Quando si sveglierà, che già mi sta facendo innervosire? xD Ma, sopratutto, da chi bisogna davvero difendersi?
Prima di rispondere, ricordate, niente è come sembra a Heathbridge Mannor...
Lilly
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