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"L'onestità", l'evoluzione di un concetto perduto.

Creato il 11 settembre 2013 da Valentina Orsini @Valent1naOrs1n1


È pericoloso, data la facilità con cui si sbaglia, vivere puntando solo sull'onestà
Questo è quanto sosteneva Tito Livio, voce storica di quella Ab Urbe condita che scandì gli anni della fondazione della città eterna in libri, o annali. Certo oggi è difficile agguantare con tanta lungimiranza e lucidità ,un concetto così complesso come quello dell'onestà. Oggi probabilmente si pensa all'onestà e ci si sente onesti fino al midollo quando con attenzione correggiamo la cassiera del supermercato, magari dopo aver visto che la poveretta, aveva sbagliato a fare i conti con il nostro resto. Oppure capita di sentirsi piccoli paladini dell'onestà, quando vediamo cadere qualcosa dalla tasca di un passante, se il malcapitato poi ha una certa età la nostra autostima cresce a dismisura, sì ammettiamolo. Ci sentiamo piccoli eroi per caso in queste occasioni...
Però al di là delle nostre piccole imprese, più o meno normali, esiste davvero qualcosa che sappia rinnovare in noi il concetto di onestà? Qualche giorno fa ero per l'appunto, al supermercato. Ero davanti ai litri di latte, poco prima del chilometro di yogurt e cose simili, quando mi va l'occhio su questo tizio non molto distante da me. Ancor prima dell'occhio l'orecchio, e sento una sorta di "filosofeggiare contemporaneo" che a me personalmente manda in delirio. Avete presente quel tipo sulla cinquantina, marsupio alla vita, occhialetto che fa figo sulla testa, sigaretta elettronica al collo, tre quarti di un jeans sbiadito e polo? Bene, il tizio è esattamente così, lo guardo e lo metto a fuoco ed è assolutamente preso da un suo certo modo di esporre, alla poveretta che gli stava di fronte, il concetto di "onestità". 
Perché ancora la chiamate onestà voi? Dai...Insomma non poteva non catturare la mia attenzione, soprattutto l'idea di riflettere ancora una volta su questa parola che, sembra fare più paura di un sorriso all'agente del Folletto che incroci per sbaglio sulla via del ritorno, per andare a casa. Nonostante l'immediata reazione al folklore grammaticale del tale, ho iniziato a guardare questa scenetta con altri occhi. Non so il fatto che i due, molto probabilmente nemmeno si capivano a vicenda, eppure sapevano ascoltarsi, annuire con pazienza l'uno all'altra. Mi intenerisco per poco ultimamente lo so, che volete che vi dica...
Mi è tornato alla mente un passo di Calvino tratto da Romanzi e Racconti, qualcosa che ho avuto la fortuna di sfogliare durante la preparazione della Tesi di Laurea. Calvino parlava di onestà e la paragonava a un tic nervoso, ad un'abitudine mentale, a quella fetta di gente che ancora continuava a farsi degli scrupoli mentre il mondo attorno, altro non faceva che favori ai quali si sarebbero susseguiti degli altri e così via. 
"Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. 

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. 
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è". 
Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti".
Dalla consapevolezza di una mente e di un paio d'occhi illuminati e illuminanti come quelli di Calvino, scivolo di colpo nei simposi da supermercato, non c'è più alcuna forma o logica letteraria, grammaticale che sia, eppure rimane qualcosa di irrimediabilmente immutato nel tempo. L'inconsapevolezza di poter essere parte di qualcosa che un attimo prima ci appartiene, un attimo dopo no. Va e viene, passa attraverso di noi, probabilmente. E nemmeno lo sappiamo...oppure lo percepiamo appena, mentre al supermercato per caso un tizio all'apparenza sconsiderato, racconta storie comuni, che parlano anche di noi. E ci fermiamo, ed ascoltiamo...

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