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L’espressione “casta” è diventata termine corrente per designare un ceto politico indifferenziato, che si estranea dai compiti di servizio pubblico per coltivare personali interessi “acquisitivi”.
Visto che rimanda a realtà lontane (l’India braminica, il medioevo feudale) e presuppone appartenenze per nascita, forse sarebbe meglio parlare di “corporazione trasversale del Potere” a cui si accede per cooptazione. Comunque il concetto è chiaro; altrettanto lo sono gli effetti devastanti di questa avvenuta separazione dei rappresentanti del popolo dai propri rappresentati. Il passaggio dal mandato democratico all’autoreferenzialità (fino all’apoteosi del Porcellum: la mutazione degli eletti in delegati dei boss di partito).
Meno esplorato delle patologie è – semmai – il come siamo arrivati a tutto ciò (la fenomenologia della “castalizzazione”). Anche se le manifestazioni iniziali del fenomeno erano state scorte per tempo dal sociologo Roberto Michels (1876-1936) come “legge ferrea delle oligarchie” nell’organizzazione della politica di massa. D’altro canto, tendenze oligarchiche nel reggimento democratico sono rilevabili sempre e ovunque.
Ma una situazione quale quella italiana non trova riscontro in nessun altro Paese presunto civile, minaccia la stessa tenuta dell’ordine democratico e pone le condizioni per la definitiva bancarotta finanziaria dello Stato.
Insomma, esplorare le modalità di crescita del fenomeno può essere utile per meglio combatterlo.
Andando a ritroso si riscontrano avvisaglie patologiche già nel passaggio dalla Prima Generazione repubblicana (quella dei Padri Costituenti, intrisa dei valori della Resistenza) alla Seconda, adattatasi con estrema facilità a quanto Italo Calvino chiamò “la Grande Bonaccia del mar delle Antille”: il vantaggioso presidio attraverso pratiche negoziali di un quadro politico bloccato dal contesto internazionale della Guerra Fredda; quando a Roma passava uno dei confini invalicabili tra i due Blocchi (l’altro attraversava Belgrado).
È legge di natura che l’acqua stagnante tenda a marcire. Difatti iniziò a putrefarsi l’ethos democratico/repubblicano, contagiato dalle pratiche del presidio a tutela degli equilibri politici, gabellate per realpolitik; che marchiarono ancora più nel profondo la Terza Generazione, diffondendosi a rivoli nelle periferie del Paese. In fondo c’è un filo che lega Amintore Fanfani (seconda coorte generazionale), Bettino Craxi (terza) e Massimo D’Alema (attuale): l’idea della politica come pura tecnologia del potere, cui tutto deve commisurarsi (compresa la concussione, intesa come “costo dovuto”).
Si potrebbe dire che questo è avvenuto perché i meccanismi di controllo e ricambio non hanno mai funzionato o sono stati deliberatamente dissestati. Ma c’è un di più. La cultura della realpolitik e i modelli di successo nella (mala) politica erano ormai diventati dominanti proprio nell’incubatore dei nuovi ceti di partito: le scuole e i movimenti giovanili; dove – sulla falsariga dei senior – scalpitava l’infornata dei cosiddetti “leaderini”. Copie caricaturali dei rispettivi capicordata, di cui clonavano le attitudini più deteriori, riconoscendosi identici tra di loro al di là delle appartenenze formali e degli schieramenti. Il problema diventava la carriera, non importa come; ed era lo stesso per un Davide Giacalone (segretario dei giovani repubblicani, poi assistente di Oscar Mammì nella prima legge televisiva da regime) come per un Pino Pizza (capo dei Dc under 25) o la nidiata piccista che adesso considerava Enrico Berlinguer un fastidioso impolitico.
Qui ora siamo.
Certamente il ripristino degli strumenti di controllo e ricambio può svolgere una funzione importante nel bloccare le dinamiche riproduttive di castalizzazione. Ma non basterà, se non si sconfigge la cultura retrostante e che la berlusconizzazione di questi anni ha reso quasi inestirpabile.
Il compito della libera informazione e della scuola. Entrambe tenute costantemente sotto minaccia.
Pierfranco Pellizzetti