George Washington Crosby ebbe le prime allucinazioni a otto giorni dalla morte. Steso sul letto d’ospedale preso a nolo, al centro del soggiorno, vide insetti che entravano e uscivano dalle crepe del soffitto. I vetri delle finestre, che un tempo aderivano perfettamente al telaio ed erano sempre puliti e brillanti, si erano scollati. Al primo soffio deciso di brezza si sarebbero staccati per piombare sulla testa dei suoi famigliari, seduti sul divano, sul sofà a due posti e sulle sedie della cucina che sua moglie aveva spostato in salone perché ognuno potesse accomodarsi. Di fronte a quel torrente in piena di vetri sarebbero scappati tutti, i nipoti del Kansas e di Atlanta, e sua sorella arrivata di fresco dalla Florida, e si sarebbe ritrovato solo, inchiodato al letto, circondato dalle schegge. Il polline e i passeri, la pioggia e gli intrepidi scoiattoli con cui aveva ingaggiato battaglie all’ultimo sangue nel tentativo di tenerli lontani dalle mangiatoie per gli uccelli avrebbero fatto irruzione dentro la casa.
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George Washington Crosby è vicino alla morte e ripensa alla sua vita, fa i conti con gli enigmi del suo passato.
E’ stato un meticoloso e rispettato riparatore di orologi e ora si rivede bambino, libero di intrecciare la propria storia a quella di suo padre Howard, un uomo taciturno e sognante col cuore trasparente di un poeta.
L’ultimo inverno è una meditazione elegiaca sull’amore, sulla perdita e sulla presenza folgorante del passato che, come ci ha suggerito una volta Faulkner, non è mai morto. Non è mai veramente passato.
Paul Harding è stato allievo di Marilynne Robinson (che l’ha portato ad avvicinarsi a letture a metà tra la letteratura e la mistica) e con questo romanzo ha vinto il Pulitzer per la narrativa nel 2010. La sorpresa è stata grande perché al momento del suo riconoscimento, L’ultimo inverno era ancora un prodotto acquistabile solo in librerie indipendenti.
Paul Harding
L’ultimo inverno
(traduzione di Luca Briasco)
Neri Pozza
2012