A quasi una settimana di distanza dall’attentato che giovedì scorso, a Vintl-Vandoies, ha sorpreso un pugno di uomini indifesi, è opportuno svolgere qualche riflessione sulle reazioni della politica e della società civile. Il dato confortante, testimoniato da un’onda d’indignazione sincera e unanime, è che sul superamento del confine tra pensieri e azioni non ci sia alcun tipo di tolleranza. Al di là del grado di conflittualità che può essere generato, insomma, è apparsa con chiarezza la percezione di un limite prima del quale occorre sempre arrestarsi. Detto questo, non bisogna commettere l’errore di sottovalutare quei pensieri che – pur non intendendo tracimare in azioni – di quelle azioni costituiscono, se non un presupposto esplicito, una contorta giustificazione a posteriori.
Quali siano e come funzionino questi pensieri l’ha spiegato molto bene Hans Karl Peterlini, intervenendo sulla pagina facebook che già all’indomani dell’attentato è stata aperta per raccogliere la solidarietà nei confronti dei “minacciati”. Peterlini allude a chi, nonostante si affretti a prendere le distanze da ogni forma di violenza, fa scivolare nel suo discorso il richiamo a “un problema che comunque deve essere risolto”, cioè il problema costituito non più dalla violenza appena stigmatizzata, ma da chi è ritenuto adesso “causa” di questa violenza e con ciò – mediante un rovesciamento di prospettiva purtroppo assai diffuso – bollato spregiativamente come “altro da sé”. Un simile modo di pensare – scrive Peterlini – è il varco attraverso il quale il razzismo s’insinua nel nostro piccolo mondo spacciandosi come suo protettore. Ma si tratta in realtà di una protezione ingannevole, giacché in un mondo in cui gli altri vengono visti come un problema è inevitabile concedere spazio alla “desertificazione umana, sociale ed ecologica” del nostro pianeta.
Esiste un modo per contrapporci alla deriva? Qui purtroppo si corre sempre il rischio che dalle buone intenzioni – rese pubbliche dall’impeto di solidarietà di cui abbiamo parlato – nasca la presunzione di rappresentare una porzione d’umanità totalmente “sana” rispetto a una “malattia” che invece dovremmo estirpare anche dentro di noi. Senza concedere nulla alla giustificazione razzista appena individuata, il vero passo decisivo riguarda quindi la lotta al meccanismo di pensiero che si accende allorché tendiamo per l’appunto a considerarci immuni dal riprodurre – anche se con finalità nobili – l’ennesima gerarchia tra individui, magari soltanto perché talvolta ci capita di sostenere le idee migliori. Solo se sapremo contrapporre alla banalità del male l’umiltà del bene, riusciremo a ridurre la discrepanza tra dover essere ed essere dalla quale poi sempre risorge la forza del male.
Corriere dell’Alto Adige, 9 maggio 2012