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L’universalità della satira. Una storia(ccia) d’amore tutta occidentale.

Creato il 15 gennaio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Nei giorni trascorsi durante quest’ultima settimana, le bocche di molti con passione si sono riempite del vocabolo “satira”, riconoscendo il suddetto genere letterario come paladino fra le letterature democratiche. L’eco degli spari che hanno assediato la redazione di Charlie Hebdo ha riecheggiato in tutti gli angoli del mondo e i tonfi sordi dei cadaveri di disegnatori e redattori hanno scandito la tragicità di un gesto terrorista atto in un territorio in cui la parola “libertà” è il più forte degli slogan dal 1789. Premettendo la massificazione della modernità, possiamo certo dire che la nostra società si compiace nel trasformare fatti di cronaca in dispute sui sistemi di valore. Poi prendere queste conversazioni sull’etica (potenzialmente complesse, troppo) spremerle, inaridirle, dunque imprigionarle in una manciata di caratteri. Infine aspettare che la folla dei social si alieni dietro il messaggio sommario, magari ampiamente condivisibile, e inizi a osannarlo e diffonderne il “Verbo”, promuovendolo a trend. La ratio comunicativa del terzo millennio si chiude così; e dal sangue o dalla cenere, dalle macerie o dalle ingiustizie, dalle vittorie o dalle sconfitte  si erge l’Hashtag tutta la sua breve, virale efficacia: il prodotto comunicativo prediletto dai magnate della comunicazione moderna.

Molti sono infatti gli Hashtag proposti dai vari utenti sui social networks in seguito al nero episodio di Parigi. Poiché sono tanti, citiamo i tre che ricorrono più frequentemente. #jesuischarlie ha marciato solenne affianco ai parigini e ai cittadini indignati nel mondo, che hanno gremito ciascuno le loro piazze, per manifestare solidarietà alla testata francese. E’ stato però causa di alcuni suoi fratelli, #jenesuispascharlie e #jesuisAhmed. Il primo raccoglie chi, o per semplice spirito di contraddizione o per ideologia religiosa, sì condanna l’atto terroristica, ma desidera dissociarsi dalle imputate offese causate dal materiale satiresco venduto e promosso da Charlie Hebdo. Il secondo vive sulla la stessa ratio del primo ma invece che prendere in causa il nome d’arte della testata, cita l’operatore delle forze dell’ordine francesi vilmente ucciso dai terroristi islamici che con loro condivideva la fede ma non il kalashnikov.

Chiedendo in prestito l’accezione heiddeggeriana, la “folla” digitale si aliena dietro questi hashtag che diventano slogan, e dietro di essi ognuno nasconde la propria personale ideologia a riguardo, che ogni tanto sfocia nei comments o shares, palesando una eterogeneità di fauna che a tratti diverte, a tratti spaventa. Chi al grido “je-suis-charlie” condanna aspramente la fede islamica. Chi solleva cartelloni #jesuischarlie e rivendica la libertà di stampa, di pensiero, di parola. In entrambi i casi, la necessità di una metafisica, o da inquisire o da santificare, si rende evidente negli animi degli uomini che, facendosi forti di religioni o ideologie neo giusnaturaliste, ragionano con paradigmi occidentali circa la sopracitata parola, che appartiene a noi più di altri: la satira.

Tutti amanti della satira, quest’ultima settimana. Tutti a indignarsi per la mancanza di senso dello humor di altri. Anche Retrò Online pubblicamente difende e ha difeso i diritti di stampa, di satira, condannando il terrorismo e pensando con rammarico ai morti di Charlie Hebdo. Eppure, nonostante tutte queste universalizzazioni, astrazioni, retoriche e dialettiche sopra la “satira”, pochi si chiedono se il concetto di satira possa essere paragonato alla “libertà di pensiero”, di principio sovraordinata.

Come hanno già affrontato alcuni colleghi QUI, la parola satira affonda le sue radici già nella civiltà greca di Aristofane, ramificandosi nella storia classica. A Roma, diventa forte con Lucilio, Petronio e Seneca. Nella lingua italiana, diretta discendente del latino, alla parola satira vengono dunque associati due significati. Il primo ci riconduce alla letteratura specificatamente latina. Il secondo non ci parla di un prodotto artistico in sé e per sé, piuttosto riconduce al termine l’intenzione critica e canzonatoria con la quale viene compiuta l’opera, che viene detta “di satira”, sia o non artistica.

Se è di intenzione che si parla, allora non si può non tenere in conto la provenienza e il contesto culturale del fruitore di questa presunta opera satiresca, poiché l’intenzionalità dell’individuo poggia su dei paradigmi strettamente morali e linguistici. Si considerino quindi nello specifico alla stessa satira politica e sociale. Oltre al contesto storico-geografico che rende a un contemporaneo oscura o poco diretta la comprensione della satira, pensata da un antico latino, è importante tenere in conto il ceppo culturale e, soprattutto, la fonte di valori che rinvigorisce un popolo e le sue azioni. Se escludiamo le popolazioni indigene e nomadi, poiché alcuni vivono secondo un sistema morale consuetudinario, il sistema di valori di ogni popolo civile (“civile” si intenda come organizzato in una società) viene legittimato dalle sue letterature, che vengono acclamate dagli uomini per l’intrinseca ideologia e il valore storico – normativo.  La Bibbia, il Corano, la Sunna e il Mein Kampf, sacri o profani che siano, ne sono fulgidi esempi. In paesi con una laicizzazione più marcata, l’estrazione dei valori morali dai testi letterari è più eterogenea e non raccoglie solo i testi religiosi. Che siano costituzioni, codici civili, penali, Divine Commedie o trattati di Voltaire, Kelsen o Hobbes, i testi di rilievo di una qualsivoglia letteratura concorrono al potenziamento e definizione del sistema di valori e culturale di una nazione che si riconosce in idiomi e semantiche consolidate (“nazione” come la penserebbe D’Annunzio). La cultura occidentale, per un’insieme di fattori storici, economici e politici, è riuscita a dominare il mondo moderno, permettendosi quindi di imporre l’occidente e i suoi valori su coloro che occidentali non erano e forse non avrebbero voluto essere.

Per proporre un esempio che avvalori quanto detto, in Giappone il concetto di satira non è di casa. Nella cultura Giapponese, come spiega Yousuke Taki, scrittore e regista teatrale, in QUESTO articolo pubblicato su Doppiozero, la tradizione teatrale è solita censurare le tematiche sociali e politiche scomode, lasciando la critica grottesca dei caratteri dell’uomo agli attori di teatro e alle maschere del teatro , specie a una tipologia di intrattenimento teatrale conosciuta come Kyogen.

Non essendoci nella semantica giapponese delle parole che abbiano un’accezione direttamente volgare (gli inglesismi, frequenti nella lingua corrente Giapponese, non si considerano a livello di impronta culturale), ed essendo il rispetto per le autorità una parte integrante della cultura e della tradizione educativa giapponese, ai nipponici il concetto di satira sembrerà oscuro e anche lievemente irrispettoso, quindi diseducativo. Eppure si parla di una popolazione che vanta fra le migliori tecnologie ed è simbolo di progresso. Non certo di terroristi.

Come l’intraducibilità della parola latina humanitas ci pone di fronte all’impossibilità di comprendere appieno il significato di una parola, che non trova il corrispettivo nella nostra linguistica, così i giochi di parole formulabili in lingua greca (vedi koleazo) sono inafferrabili data la nostra cultura e la nostra lingua. Ai politicanti della satira bisognerebbe più spesso ricordare che la satira stessa è il frutto di una laicizzazione dello stato. In virtù di una predilezione della libertà dell’individuo sulla comunità, lo stato si riserva la possibilità che alcuni si prendano gioco di loro stessi e dei loro paradigmi sociali. E talvolta, come nel caso di Charlie Hebdo, viene concesso il sontuoso lusso di parlare male e persino in maniera offensiva (che non ha carattere intenzionale di vilipendio, ma è necessario alla satira perché sia satira)  di altri che non siano figli della stessa cultura. Premesso che il nostro contesto culturale occidentale condanna la violenza in ogni sua forma e manifestazione, soprattutto là dove i danni sono consumati in vite umane, è comunque pericoloso, o quantomeno ingenuo, avere la pretesa che tutti nel mondo reagiscano a un’offesa come reagirebbe un occidentale. La satira è occidentale. E’ nostra e a noi spetta comprenderla, capirla e, nel caso, esserne sedotti. Ma quando tocca agli altri subire la nostra satira, bisogna ricordare che le conseguenze non sono universalmente deducibili e soprattutto obbligatoriamente estendibili ad altre culture. Le disgrazie come quelle del 7 gennaio 2015, che non possono essere in alcun modo giustificabili, dovrebbero far riflettere sul fatto che dialogare con culture differenti in maniera propositiva, vuol dire rinunciare a dei lussi a cui tanto siamo affezionati e di cui molto andiamo orgogliosi, ma che non poco rallentano i sentieri versi i buoni dialoghi, verso l’integrazione e verso la civile convivenza. Verso la pace. La fratellanza.

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