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L’utilità della revisione

Da Marcofre

Dal basso della mia esperienza, ho sempre pensato che la revisione dello scritto sia uno degli aspetti più sottovalutati. Si parla degli editori seri, e di quelli che non lo sono affatto; del libro elettronico e del suo impatto sul cartaceo (se fosse per darsi un tono? Forse non ce ne importa un accidente).
Delle piattaforme di self-publishing.
Quasi mai del duro lavoro che si deve portare a termine sullo scritto. Senza contare quello che farà (forse), l’editor.

Per fortuna, la lettura de “Il mestiere di scrivere” di Raymond Carver non fa che rafforzare la mia idea in proposito.

In quelle pagine (da leggere con calma, come quelle della O’Connor), viene ribadito l’utilità di prendersi una pausa da ciò che si è messo su carta (analogica o digitale che sia).
E mi torna in mente quanto affermava Ignazio Silone: lui non avrebbe mai desiderato separarsi dal proprio libro. Un atteggiamento eccessivo?

Non lo so. La pausa, il tornare a rileggere quanto prodotto ore, o giorni prima, è innanzitutto un esercizio di umiltà, di rispetto per chi legge.
Umiltà perché si è consapevoli che quanto scritto non è la cosa migliore che possiamo creare. Il patto che c’è tra lettore e scrittore recita una parola semplice, eppure difficilissima da rendere su carta: efficacia.

Non “assenza di errori” (quello è il minimo sindacale, mentre il refuso è una bestia che salta fuori sempre e solo dopo una lettura di un estraneo: uno dei misteri del cosmo più impenetrabili). Bensì proprio “efficacia”. Vale a dire (secondo me), ottenere con il minimo, il massimo.

Nel capitolo “Orientarsi con le stelle” contenuto nel libro “Il mestiere di scrivere”, Raymond Carver cita Pound:

una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura

Il corsivo è così nell’originale.
Questo è il genere di opinione capace di disintegrare qualunque ambizione; però spesso si va avanti con in testa proprio quella manciata di parole. Perché le riconosci come tue; in fondo frullavano nel cranio da anni forse, ma non avevano una forma compiuta. Poi, la rivelazione.

No, non è una legge assoluta, bensì il mio modo di affrontare (di tentare di affrontare), la scrittura. E quel “minimo” non significa affatto “poco”: non è questione di scrivere brevi paragrafi, frasi corte, meglio ancora se cortissime. Bensì di individuare la forma migliore (come diceva Pound), per convincere il lettore a donare a chi scrive il proprio tempo.


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