Oggi 12 marzo verranno discusse al Consiglio dei Ministri le prime proposte di riforma in vista della creazione di un nuovo disegno di legge da sottoporre al Parlamento sulla televisione pubblica.
Il Consiglio di amministrazione sarà ridotto da nove a sette componenti: tre nominati dal Ministero dell’Economia incluso l’amministratore delegato, tre dalle Camere in seduta comune tra i quali verrà scelto il Presidente e l’ultimo sarà il rappresentante dei dipendenti Rai. Il Governo, al pari di qualsiasi azionista di maggioranza, avrà un peso decisivo nella nomina dei candidati, mentre la scelta di far nominare gli altri membri dal Parlamento a Camere unite, come avviene per Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura, sembra voler esprimere una funzione di bilanciamento e garanzia. La proposta di avere un rappresentante dei lavoratori è invece di ispirazione tedesca. Nella Legge Gasparri del 2004, al contrario, sette amministratori erano nominati dalla Commissione parlamentare di vigilanza e gli altri due dal Ministero.
Altro punto di discussione sarà rappresentato dal canone: da una parte, la proposta del sottosegretario Giacomelli di farlo rientrare, in maniera ridotta, nella bolletta della luce; dall’altra, la più radicale idea del Presidente Renzi di abolirla del tutto.
Centrale nella bozza è l’offerta al pubblico tramite la differenziazione dei tre canali: uno generale, uno dedicato alla sperimentazione e il terzo alla cultura, quest’ultimo senza la noiosa interruzione degli spot pubblicitari.
Agli antipodi si situano invece le proposte dei 5 stelle che vorrebbero un consiglio d’amministrazione composto di amministratori sorteggiati tra personalità designate dall’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che vigila oggi sul pluralismo dell’informazione e sulla libera concorrenza nel mercato delle comunicazioni, e vorrebbero abolire il Consiglio di Vigilanza, che nel disegno di Renzi rimarrebbe un organo di controllo.
L’obiettivo del Governo Renzi è quello di riportare la televisione pubblica al ruolo informativo ed educativo che aveva ai suoi albori, migliorare la qualità del prodotto e rendere competitiva l’azienda italiana a livello internazionale anche attraverso l’esportazione di “fiction che raccontano l’Italia”.
Proprio le fiction, in effetti, erano uno dei veicoli culturali più efficienti negli anni ’50 e ’60. Le settantenni di oggi, di cui la stragrande maggioranza ha un titolo di studio che non supera la licenza elementare, conosce perfettamente la trama di Jane Eyre, Delitto e Castigo, Cime Tempestose, non per aver letto la Bronte o Dostojevskij, ma grazie agli sceneggiati della Rai. I temi che appassionano i fruitori del genere sono gli stessi: amori e passioni, delitti e sofferenze, colpi di scena e suspance. La differenza è che in passato i soggetti erano i colossi della letteratura, oggi sono storie fittizie, il più delle volte ripetitive e scontate, perlopiù prodotte da aziende straniere. In questo il prezzo che si paga è doppio: il primo è imputabile direttamente alla Rai, che preferendo investire nell’acquisto di format preconfezionati non sfrutta il potenziale degli attori italiani e delle sue aziende di produzione, il secondo ricade sui telespettatori, che potrebbero svagarsi godendosi il teatro di De Filippo, Totò o Pirandello -per non parlare della letteratura di Calvino, Carroll o Tolstoi – e invece si vedono offrire le solite storie di dottori, carabinieri o professori.
Fortunatamente non mancano gli esempi virtuosi, come potrebbe essere la serie di Montalbano ispirata ai romanzi di Camilleri. Si spera i settantenni di domani non penseranno sia unicamente quella la letteratura italiana.