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John Edgar Hoover, è stato il fondatore del Federal Bureau of Investigation, che diresse dal 1924 al 1972, trasformandolo in un micidiale apparato di polizia, in grado di catturare ed eliminare gangster del calibro di John Dillinger o George ‘Machine Gun’ Kelly. Scoprì l’assassino del piccolo Lindbergh e dagli anni ’50, perseguitò con accanimento paranoico, i comunisti e i componenti del Black Panther Party. Molto criticato per il suo atteggiamento “reticente” durante le indagini sull’assassinio di J. F. Kennedy, Hoover ha vissuto l’America della Depressione fino a quella del movimento per i diritti civili, e agendo attraverso una montagna di ricatti, lavoro sporco, manovre oscure, è riuscito a creare un impero personale, in grado di tenere in scacco tutti i poteri forti. Eastwood dirige con sguardo cupo e il suo solito stile essenziale, questa storia dai lati oscuri. Un racconto che è tutto meno che un’agiografia, un apologo o una storia di successo. A “scricchiolare” infatti, alla fine, non è solo l’uomo J. Edgar, ma il Paese intero.
Quella che Eastwood racconta, attraverso la narrazione della vita di Hoover, è dunque, la storia del fallimento dell’America democratica. La sconfitta del “mito” che non lascia spazio né al sogno, né alla redenzione, mai così irreversibilmente negata. La vita di J. Edgar Hoover (interpretato da un sempre più maturo e credibile Leonardo DiCaprio), viene qui rivisitata alla luce della dicotomica articolazione tra il lato ufficiale del suo operato pubblico e la complessa e chiacchierata vita privata. Affiancato dalla fedele segretaria Helen (Naomi Watts) e consigliato dalla rigida madre Anne Marie (una straordinaria Judi Dench), Hoover contribuisce a creare il “mito” dell’F.B.I., occupandosi in prima persona di riorganizzarne struttura e metodi applicativi. Mentre il suo potere cresce a dismisura, molte voci iniziano, però, ad insinuare dubbi sul vero legame che intercorre tra lui e il suo braccio destro Tolson (Armie Hammer, penalizzato – poveretto – da un tremendo trucco posticcio), sospettato di essere il suo amante.Io con Clint Eastwood ho un rapporto strano, come se fosse lo zio ricco che ha fatto fortuna all’estero e che si va a trovare una volta all’anno, per Natale. Uno strano tipo, lo zio Clint: a volte ti riempie di doni e leccornie da leccarsi i baffi, a volte ti guarda buio, indugiando con lo sguardo attraverso lo spioncino della porta di casa, come si trovasse di fronte a un venditore ambulante o a un Testimone di Geova. Con Eastwood è un po’ lo stesso: uno che ha saputo forgiare capolavori seminali quali Mystic River, Changeling, Gran Torino – solo per citarne alcuni dei più recenti – da un po’ di tempo in qua, ci propone dei piatti insipidi, se non addirittura indigesti (so che è un problema mio, ma il solo pensare a Invictus oHereafter, mi causa delle eruzioni cutanee). J. Edgar è senza dubbio un bel filmone solido, che ti passa spedito sotto gli occhi, però con la stessa velocità ti scappa pure, dagli occhi. Sì, perché in due ore di narrazione bella, sincopata, non vi è mai un attimo in cui puoi flettere i muscoli sulla poltrona, estraendo dalla tasca le maracas per festeggiare. No, signori della Corte, il “genio” (al momento) non abita più qui. Parafrasando il critico Roger Ebert, mi permetto quindi di affermare, in questo caso, che: vedere J. Edgar è come baciarsi allo specchio. Ti piace ciò che vedi, ma senti un’inevitabile sensazione di freddo.
Voto: 6,5Voto redazione--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Apeless: 5,5
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