Nella biblioteca di Herman Melville si nascondeva una creatura antidiluviana depositaria del segreto delle cose. Era stata questa creatura ad insegnare per prima la scrittura agli uomini. Li aveva ispirati a creare pagine di pergamena su cui scrivere simboli simili alle sue macule. Era stata questa stessa creatura a introdurre nella mente turbata di Gilgamesh il tremendo concetto di immortalità, fetido seme di ogni religione a venire. Questa creatura era un dio. Melville non avrebbe mai potuto immaginarlo perché essa aveva la forma di un libro.
Era lunga circa quaranta centimetri, larga ottanta, spessa quindici. Possedeva quattro artigli con un’unica unghia. Una volta robustissimi da molto tempo non riuscivano più a tenerla nemmeno in piedi. Il suo corpo era attraversato da una costola dura tipo sterno, che formava quello che chiameremmo “dorso” del libro, la parte che Melville vedeva ogni giorno senza sapere cosa davvero avesse davanti e che era la vera pancia di quest’essere. Il vero dorso della creatura, invece, era formato da sottilissime membrane sovrapposte che si dipartivano dalla costola verso l’esterno. Bianche come il latte erano maculate con arabeschi neri di varie forme e dimensioni. Non erano attaccate fra di loro, se non al centro ed era possibile sollevarle e sovrapporle le une sulle altre, quelle di destra su quelle di sinistra e viceversa: era solo in questo modo che questa bestia poteva girarsi quando si capovolgeva. Dopo l’invenzione della stampa la creatura si era abbandonata a lunghi sonni durati secoli e fu ritrovata da Melville in un mercato di una città nelle isole del sud, ormai semi-mummificata e completamente chiusa su se stessa. Pensando fosse scritto in chissà quale misterioso linguaggio, lo scrittore americano acquistò per pochi dollari quello che credeva fosse un libro, dimenticandosene presto.
La creatura era dotata di poteri sovrumani e prima di morire si insinuò nei pensieri dello scrittore. Fu così che Herman Melville scatenò la formula.
La creatura gli dettò un messaggio che sarebbe stato incomprensibile a tutti tranne che al suo vero destinatario e questo messaggio si intitola «Bartleby lo scrivano».
Il protagonista del racconto, Bartleby, prima di entrare come scrivano nell’ufficio di un avvocato di Mahnattan, era un oscuro subalterno dell’ufficio postale, impiegato nella sezione “Lettere Smarrite”, addetto all’ingrata incombenza di gettarle in un apposito inceneritore. Agli occhi di Bartleby, unico testimone consapevole, il fumo di quelle lettere bruciate rappresenta le ultime vestigia di un alito vitale ormai disperso, un’ultima brezza nell’imminente bonaccia della solitudine.
Melville scriveva mangiando biscotti allo zenzero. La moglie discuteva fra sé la preferenza per questo o quell’altro posto di vacanza. Melville rispondeva alle sue proposte con dei ‹si› o ‹no› scritti su foglietti volanti mentre la sua signora sospendeva le immagini che il suo cervello creava con dei “preferisco”. Fino a quando considerò un’ipotesi, ne scartò un’opzione e disse “preferirei” (I would prefer…). Melville scrisse “…di no” (not to). La creatura, istigando le indecisioni e i desideri della donna, diede vita alla indecisa indecisione di Bartleby. La sua risposta, irremissibilità pura, generava silenzio, imbarazzo o infauste risposte o nuovi e più infausti non-sensi. Bartleby preferisce di no (ha preferenza di no), preserva il mondo dall’orrore, consapevole di non poter fare nessun altro tipo di lavoro (anche B & P copiano, alla fine, in Flaubert) e capisce di non potersi salvare dopo quello a cui ha assistito (o dopo quello che ha saputo) per il ruolo che il destino gli ha riservato.
La signora Melville stava preparando un pasticcio di fegato d’oca e quando lo scrittore si alzò per raggiungerla a tavola la creatura sentì i suoi passi, sospirando di gioia per quel letargo da vecchiaia prolungata ormai prossimo alla fine. La sua interminabile vita era agli sgoccioli, ma era soddisfatta poichè il suo lascito era il più perfetto che un individuo della sua specie avesse mai concepito. Aveva dettato a Melville il suo testamento.