Voti dimezzati. Nessun delfino da lanciare. Liti interne. E i delusi che guardano a Renzi. Così finisce Forza Italia. Senza l'ex Cav. (Di Marco Damilano - l'Espresso)
L'ex ministro di Forza Italia ne ha viste tante negli ultimi anni, ma non nasconde che tutto è cambiato, con un misto di eccitazione e di disperazione: «Per noi questa campagna elettorale sarà la prima volta. La prima volta senza Silvio Berlusconi candidato. La prima volta senza il suo serbatoio di voti. E la prima volta senza una linea politica». E non c'è dubbio su quale dei tre handicap di partenza sia il più grave. Un capo interdetto si può sopportare, un impedimento temporaneo può essere arginato, una schizofrenia politica in un partito abituato da venti anni a essere gestito come una monarchia assoluta, quella no, rischia di diventare letale.
Schizofrenia è la parola che descrive lo stato d'animo delle truppe rimaste fedeli al Cavaliere mentre arriva la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano sulla pena che dovrà scontare il condannato Berlusconi. Basta seguire le piroette quotidiane del più fedele e combattivo di tutti, il capogruppo alla Camera Renato Brunetta. L'altro giorno, per esempio, l'ex ministro si sveglia e comincia a picchiare duro sul governo e su Matteo Renzi. Ultimatum, toni sprezzanti verso il ministro delle Riforme, «la signorina Maria Elena Boschi». Un fuoco di fila che va avanti fino a metà pomeriggio, quando da Arcore arriva il contrordine compagni: vietato litigare con il premier, le riforme si votano, anche quella che elimina il Senato e che sta scatenando la rivolta tra i senatori forzisti, il patto del Nazareno tra i due leader tiene.
Il dialogo tra Silvio e Matteo non si è mai spezzato, assicurano entrambi i fronti. Sì, ma con quale Berlusconi parla Renzi? L'ex premier è diviso in due su tutto. Esistono addirittura due diversi uffici stampa che si contendono la sua comunicazione con l'esterno. Paolo Bonaiuti si è ritirato da tempo senza clamori, rimpianto da tutti, a gestire le uscite del Cavaliere sono ora due squadre: nella prima gioca la portavoce del partito Deborah Bergamini, la seconda schiera l'onnipresente Denis Verdini con il deputato Luca D'Alessandro, da anni addetto stampa del partito. E gli effetti si vedono. «La riforma del Senato è inaccettabile e indigeribile», spara Silvio Uno alle 19.38 del 4 aprile. «Forza Italia resta sostenitrice della necessità di riformare il Senato, a partire da quanto stabilito nel cosiddetto patto del Nazareno», fanno dire a Silvio Due meno di un'ora dopo con una nota, alle 20.27. Il 7 aprile la scena si ripete: «Salta tutto», trapela da Arcore a pranzo. Macché, «non mi rimangio la parola data, avanti con le riforme», fa dietrofront Berlusconi a cena.
Nel frattempo, tra stop and go, indecisioni e baruffe ai vertici, Maurizio Gasparri è sulla linea del resistere resistere resistere, Paolo Romani è più moderato, le ex ministre come Mariastella Gelmini e Mara Carfagna hanno indossato i giubbotti da combattimento, ad avere le idee chiare su cosa fare sono gli elettori azzurri: fuggire, andare via, abbandonare il Titanic berlusconiano alla sua deriva. I numeri sono impietosi: alle elezioni politiche del 2008 il Pdl aveva raccolto oltre 13 milioni e 700mila elettori, alle europee di un anno dopo i voti erano stati quasi undici milioni, alle politiche del 2013 sono scesi a 7 milioni e 300mila, oggi dopo la scissione dell'Ncd di Angelino Alfano l'ex corazzata azzurra supera di poco i cinque milioni di voti, sotto il 20 per cento. Tra i notabili azzurri, però, le previsioni sono ancora più drammatiche e c'è una percentuale che fa paura: quota 15 per cento. Una cifra che segnerebbe l'estinzione politica del berlusconismo, simile a quanto accadde venti anni fa quando dopo Tangentopoli la Dc si ritrovò nel giro di pochi mesi con un terzo dei voti che raccoglieva da decenni. All'epoca il grosso dell'elettorato abbandonò la Balena bianca ormai spiaggiata per rivolgersi al nuovo campione dell'Italia moderata, Silvio Berlusconi. Oggi il fenomeno si ripete, ma non è ancora chiaro chi raccoglierà i transfughi di Silvio. Un ex elettore di Forza Italia su cinque voterà per il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, un quarto dichiara di volersi astenere, almeno per ora, in attesa di una nuova casa politica. Ed è lì, in quel bacino di consensi, che si annida la tentazione di rifugiarsi nel campo avversario, votare per Renzi e se necessario perfino per il Pd. Un passaggio netto, da destra a sinistra, mai avvenuto nella Seconda Repubblica dei due schieramenti contrapposti, in cui il dissenso dell'elettorato veniva segnalato al massimo con il non-voto. Ma reso possibile dall'attitudine di Renzi a fare da solo il catch-all-party, il partito pigliatutto: a sinistra, al centro, nell'anti-politica, a destra, specialmente, perché lì l'emorragia è più grave.
Nella ridotta berlusconiana sfogliano sondaggi devastanti. Il secondo posto dopo il Pd, irraggiungibile sopra il 30 per cento, è saldamente presidiato dal movimento di Grillo, Forza Italia è il terzo partito e anche i più ottimisti scommettono che il risultato finale assomiglierà a una catastrofe: anche in caso di rimonta il duello con M5S si consumerà in un pugno di voti, per pochi decimali.
«Sì, è vero, la banda di oscillazione del risultato di Forza Italia oscilla tra il 15 e il 25 per cento», ammette un'esperta macchina da voti come il pugliese Raffaele Fitto, probabile capolista di Forza Italia nella circoscrizione Sud che va dall'Abruzzo alla Calabria, decisiva per il derby con gli ex amici dell'Ncd di Alfano. Dieci punti che ballano e che prescindono dall'impegno personale del Cavaliere in campagna elettorale. Sta franando l'intero apparato azzurro. Le regioni del Nord che regalavano ai candidati berlusconiani milioni di voti e costituivano il dna del partito, il tratto identitario, «il forza-leghismo», lo chiamava Edmondo Berselli, sono un buco nero che inghiotte ogni speranza di rimonta. In Piemonte, dove si vota per la regione dopo la sentenza che ha annullato le elezioni precedenti in cui aveva vinto il leghista Roberto Cota, il centrodestra corre spaccato tra Gilberto Pichetto, candidato di Forza Italia e Lega, e l'ex berlusconiano Guido Crosetto, oggi in Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. Nel Nord- Est, in Veneto e in Friuli, i consensi perduti diventano una voragine, l'ex ministro Giancarlo Galan sente aria di flop e dice no alla candidatura, la lista dei rifiuti si allunga a dismisura, il capolista non c'è. Eppure fino a qualche anno fa in Veneto gli azzurri berlusconiani sembravano un'armata invincibile. Nella circoscrizione Centro correrà il veterano Antonio Tajani (è dal 1994 che non si sposta dalle istituzioni europee), ma alle sue spalle sta nascendo una lista debolissima, in cui i tradizionali portatori di voti, ex democristiani, ex socialisti, ex An, si sono dileguati. Nel Sud c'è da arginare la tempesta campana, il gruppo di Nicola Cosentino sbaragliato dopo l'arresto del suo capo indiscusso, nelle isole è caccia al candidato: anche l'ex ministro Saverio Romano ha detto di no, troppo rischiosa la sfida. E poi nessuno può garantire che il sacrificio sarà ricompensato. Prima c'era Berlusconi, ma ora Silvio non c'è più. Galan dice no, Romano pure, Claudio Scajola che avrebbe accettato è stato pregato dal nuovo intimo di casa Arcore Giovanni Toti di farsi da parte. Una sfilza di diserzioni, eppure l'unica possibilità di trainare un risultato vicino al venti per cento sarebbe far competere i consiglieri regionali e i sindaci, i signori delle preferenze. E invece si tirano indietro perfino gli ultimi arrivati, i legionari dell'esercito di Silvio guidati da Simone Furlan. L'esordio alle elezioni europee, con le circoscrizioni che abbracciano più regioni e l'obbligo di prendere le preferenze, non è il terreno più agevole per un debutto elettorale. Anche se poi la vera partita si gioca lontano dalla periferia, a Roma, nella schermaglia tra Berlusconi e Matteo Renzi.
È l'indecisione nei confronti del governo ad avvelenare Forza Italia, divisa tra falchi e colombe, come quando c'era il governo di Enrico Letta, ma con un capovolgimento di posizioni. Verdini, che un anno fa era tra i più decisi sostenitori delle elezioni anticipate e dell'urgenza di far cadere Letta, si è trasformato nel principale alleato di Renzi. Un asse che scatena i sospetti, a sinistra e a destra. «Pichetto è una candidatura debole, inventata da Verdini per far vincere Sergio Chiamparino, il nome più gradito al premier», tuona il gigante Crosetto. È Verdini il garante delle riforme, l'interlocutore numero uno di Palazzo Chigi, chissà se a nome di Berlusconi o a titolo personale. Ed è su di lui che si accaniscono gli altri notabili azzurri che temono di appiattirsi su Renzi. «Intendiamoci, qualcosa dobbiamo fare, ma nei prossimi sei-sette mesi Renzi resterà fortissimo, potrà dire quello che vuole e la gente gli crederà», ragiona un berlusconiano della prima ora. «Quando andiamo in giro a difendere il Senato elettivo corriamo il pericolo di essere presi a sediate, il nostro elettorato se potesse cancellerebbe anche la Camera e forse pure il Quirinale. Se ci tiriamo fuori dalle riforme facciamo una mossa suicida, non ci sarà perdonato dal nostro elettorato».
Ma anche restare fermi e applaudire ogni trovata renziana è un pericolo mortale per ciò che resta di Forza Italia. Per questo bisogna risvegliare il leader scomparso da mesi dal panorama politico, convincerlo a combattere l'ultima battaglia contro i nemici più insidiosi, Renzi e Grillo che presidiano tutti gli spazi del campo, mentre un maestro del posizionamento elettorale come Berlusconi fatica a trovare uno slogan, una linea, una parola chiave. Non è più l'epoca in cui il Cavaliere candidato sulle schede valeva da solo dieci punti, l'incognita però è decifrare quanto vale questo centrodestra del dopo-Berlusconi, senza più Berlusconi.
Una guerra che va oltre il tema di qualche settimana fa, lo scontro con i governativi di Alfano per l'egemonia dei moderati. Perché per il Cavaliere la partita è diventata esistenziale, sopravvivere. Dopo venti anni il grande crollo, la disgregazione dell'impero berlusconiano, è appena all'inizio. Finora il consenso elettorale ha consentito a Berlusconi di restare sulla scena, nonostante le scissioni e le condanne. Se anche gli elettori dovessero definitivamente abbandonarlo della sua creatura politica non resterebbe più nulla e i voti berlusconiani prenderebbero un'altra direzione. Renzi è pronto ad accoglierli.
Marco Damilano
Renzi, perché non parli mai di evasione fiscale? (di Bruno Manfellotto - l'Espresso)
Ora che il consiglio dei ministri ha approvato il Def, documento economico e finanziario; ora che il premier, stavolta senza slide né battute, ne ha illustrato misure e obiettivi (qualche una tantum, qualche incertezza per le coperture); ora che sappiamo dove si taglierà e dove si prenderà e chi incasserà; ora che abbiamo apprezzato che a sacrificarsi un po' siano anche banche, supermanager e mandarini di Stato; ora che, proprio per questo, Renzi ha potuto dire «che per la prima volta pagheranno coloro che non hanno mai pagato, e riceveranno coloro che non hanno mai ricevuto nulla"; ora possiamo rivolgergli di nuovo la questione già sollevata tre settimane fa ("Quel pasticciaccio del 3 per cento", "l'Espresso" n.13): perché Renzi non ha mai nominato fino a oggi quelle due magiche parole, evasione fiscale?
Adesso, vedrete, il sindaco d'Italia è abile e sveglio, s'inventerà qualcosa (ne ha accennato in un tweet, senza scrivere quelle due parole...), ma la realtà di cui parliamo - e alla quale non dovremmo assuefarci mai - fa davvero spavento. Stime attendibili calcolano in 180-200 i miliardi di evasione fiscale; le statistiche rimandano del contribuente una fotografia alquanto irrealistica: gli italiani denunciano in media 19mila 750 euro l'anno (i lavoratori dipendenti 20mila euro, gli imprenditori 17mila). E a quanto pare il cinque per cento degli italiani si spartisce quasi un quarto del reddito nazionale.
Il cittadino urla contro le vessazioni di Equitalia forte con i deboli - accusa - e debole con i forti; e però se oggi non paghi le rate del mutuo ti portano via tutto, se evadi le tasse non ti succede niente: per via di prescrizioni, patteggiamenti, contenziosi oggi pagano con la prigione solo 168 condannati per frode fiscale. Altro che svuotacarceri.
Parafrasando il Berlusconi trionfante del 1994 potremmo dire che se ogni impresa e partita Iva riducesse la sua evasione o elusione fiscale di mille euro l'anno, lo Stato incasserebbe una decina di miliardi, il doppio della spending review promessa e annunciata da Carlo Cottarelli, oltre due volte il gettito dell'Imu prima casa, più di quanto costerà il taglio del cuneo fiscale. E però Renzi ha aspettato finora per parlare di lotta all'evasione fiscale. Perché?
1. Forse il premier pensa che la lotta all'evasione fiscale sia quella cosa che si fa ma non si dice;
2. o forse teme che se ne parli e poi non se ne faccia nulla. Però nei suoi primi cinquanta giorni di vita, il governo ha annunciato molte cose che non sappiamo se e quando realizzerà, altre le ha cancellate;
3. quella di Renzi potrebbe anche essere una scelta strategica: in tempi di crisi e di crescita prossima allo zero c'è chi dice che sarebbe controproducente togliere ancora ossigeno ai piccoli imprenditori. Giusto, vero, ma i mancati introiti impediscono allo Stato di finanziare opere o alleggerire ancora il costo del lavoro;
4. oppure la ragione è molto più semplice: è già cominciata la campagna elettorale per le europee e, come spiega Vincenzo Visco (che Berlusconi chiamava Dracula…) a chiunque glielo chieda, sono in ballo dieci milioni di voti e da che mondo è mondo le campagne elettorali si vincono o si perdono parlando di tasse, o non parlandone affatto;
5. i competitor di Renzi, per esempio, si chiamano Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, e mentre il primo trionfò gridando nelle piazze e in tv «meno tasse per tutti», l'altro è ancora oggi accreditato di un quinto dei voti prossimi venturi senza aver mai pronunciato – nemmeno lui! – le parole evasione fiscale.
Tutto chiaro, tutto comprensibile. Ma se davvero Renzi vuole vincere la sua battaglia, politica ed economica, quelle due parole non le può più ignorare. Perché nascono anche in quel ginepraio di leggi, accomodamenti, aiuti che si annidano da sempre nella pubblica amministrazione - fino ad alimentare corruzione e criminalità - e che lui dice di voler estirpare. Del resto, non vuole "cambiare passo"?
Bruno Manfellotto