Dopo Freud è stato universalmente riconosciuto che parlare fa bene, che la parola cura, che la parola ha il potere di scuotere l’inconscio e fare venire alla luce i problemi sepolti, ma non per questo inattivi.
Attraverso la pratica della parola e dell’ascolto il paziente può scoprire e comprendere il senso del suo star male, i perché del suo sintomo, ma sapere non basta, aiuta, ma non basta.
Svelare e diventare consapevoli del significato dei nostri sintomi, non ce ne libera, è questa una verità che l’esperienza clinica conferma ogni volta.
Nel sintomo infatti vi è sì una parte costituita da significati, il sintomo cioè si può leggere e capirne il senso, e su questa parte la parola interviene con successo, svela e cura.
C’è poi un’altra parte che invece resiste e non soggiace al potere della parola, una parte che tramite la sofferenza insita nel sintomo, fornisce un godimento inconscio, è ciò che Freud ha chiamato vantaggio secondario del sintomo. Ciò vuol dire che l’essere umano malgrado la sofferenza che gli procura è attaccato al proprio sintomo, e per lui è estremamente difficile staccarsene definitivamente.
In questo ambito la parola non può nulla, sarà il transfert a sciogliere questa nostra incomprensibile fedeltà ai nostri mali, ai nostri sintomi, malgrado la sofferenza che comportano.
Nella relazione con il proprio terapeuta il paziente fa entrare anche i suoi modi di godimento pulsionale, il lavoro sul transfert, cioè sulla particolare e speciale relazione che si instaura tra paziente e terapeuta, permette di trasformare le particolari modalità di godimento inconscio del paziente.
Se questo lavoro cambia i modi di godimento inconscio del paziente, quelli forniti dal sintomo diventano inutili, in altre parole viene annullato il vantaggio secondario del sintomo che è la causa dell’attaccamento del paziente al proprio sintomo
Il lavoro sul transfert accompagnato dalla cura della parola può allora giungere alla remissione del sintomo in modo profondo e radicale.
Nella cura della depressione il transfert è particolarmente importante : una caratteristica del transfert, infatti, è quella di risvegliare e mobilitare il mondo degli affetti, sia postivi, sia negativi, del paziente.
Questo vuol dire che la relazione con l’analista è per sua natura una relazione intessuta di affetti ed emozioni, affetti ed emozioni che gradualmente liberano il depresso dallo stato di disperata immobilità nel quale è precipitato e lo restituisce al suo desiderio e perciò alla vita.
Il ricorso allo psicofarmaco deve essere fatto con molta accortezza, infatti l’anestesia del dolore indotta dallo psicofarmaco può spingere il depresso ad evitare la fatica di assimilare e trasformare la ferita della perdita attuale e primitiva, che viene nuovamente sepolta, mentre il paziente si rifugia in una sorta di riposo illusorio e immobile.
Lo psicofarmaco è utile qualora la sofferenza e la disperazione del depresso siano talmente intense e incontenibili da risultare ingestibili. In questi casi il lavoro analitico è paralizzato, c’è invece il rischio che tale sovraccarico d’angoscia non trattabile col lavoro analitico spinga il depresso a gesti drastici e definitivi per liberarsene una volta per tutte.
In tali casi l’uso dello psicofarmaco è utile e necessario, permette in fatti di abbassare l’intensità e il livello di angoscia e sofferenza rendendo così possibile portare avanti il lavoro terapeutico che sempre richiede la collaborazione attiva del paziente.