Anna Lombroso per il Simplicissimus
La Fiom ha vinto la sua prima battaglia in tribunale contro la Fiat. Il giudice del tribunale del lavoro di Bologna ha riconosciuto, per la prima volta in Italia, la condotta antisindacale di Magneti Marelli, l’azienda del gruppo del Lingotto che ha escluso le tute blu della Cgil dalle elezioni delle rappresentanze sindacali in fabbrica. L’azienda «sorpresa e stupefatta», fa sapere che farà opposizione al decreto del giudice bolognese. Il ricorso verteva sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori: e il giudice del lavoro Carlo Sorgi, nella sentenza, avanza il rischio che, con l’esclusione di chi non firma i contratti aziendali, «l’imprenditore scelga il proprio interlocutore sindacale, adottando un comportamento ….. limitativo della libertà sindacale e della dignità del sindacato che comporta anche il rischio che l’imprenditore scelga il proprio interlocutore sindacale». Secondo il giudice essendo «la Fiom la sigla sindacale che conta il maggior numero di iscritti negli stabilimenti Magneti Marelli, la sua esclusione costituirebbe un grave vulnus al principio di democrazia nelle relazioni industriali».
E anche stavolta si dirà che è una sentenza storica. E davvero rischia di esserlo, e non solo perché quello può essere l’amaro destino degli eventi irripetibili, ma anche perché ci sono momenti in cui la Storia cambia di segno: compiamo le stesse azioni, manteniamo identiche abitudini, il supermercato è ancora lì, il bar sotto casa è ancora aperto, ma nulla sembra essere come prima. Eppure qualcosa si è irrimediabilmente spezzato e siamo entrati in un’epoca “altra”, non nuova, altra. E la curva che si spezza nella spirale della storia è quella dei luoghi del lavoro, nel vivo delle relazioni sociali, nella classi che non sono più categorie sociologiche, ma sempre più campo di battaglia.
Il governo ha dimostrato che è finito il tempo della concertazione. Allo stesso modo ha dichiarato la morte della mediazione, riducendo il ruolo proprio dei “corpi intermedi”, rifiutando una “sfera politica” autonoma, rappresentativa di valori e interessi differenti che possano essere “democraticamente” negoziati e dando luogo ad altri tipi di rapporti non più “inclusivi e mediatori”, secondo una gerarchia chiusa e inderogabile: l’impresa su e sotto gli schiavi.
Ma potrebbe essere una sentenza storica perché segna un riscatto della democrazia, non solo dentro la fabbrica esemplare del primato dell’iniquità, ma perché riverbera nella società tutta.
Da troppo tempo si dice “non c’è alternativa” come una sentenza inappellabile. Non a caso si dice che Monti aspira ad essere la nuova Margaret Thatcher, quella che ha creato l’ acronimo (Tina: there is no alternative), pilastro del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (solo formale, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche); poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio di salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.
Così la ricetta che non contempla alternative oggi è la libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana e dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, un quadro di tutele fondamentale per i lavoratori e la società se la sentenza di ieri, che riguarda la libertà di tutti noi, ha potuto essere emessa.
Per anni, a ripeterci «non c’è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari, bancarottieri, corruttori e concussi. Poi ci ha pensato Marchionne con un referendum allegorico e dimostrativo col quale ha chiamato a confermare che non c’era alternativa ai soprusi, alle rappresaglie, alla sopraffazione proprio le vittime designate, impiegando paradossalmente uno strumento democratico per l’apoteosi del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.
Facciamo che le vittorie di Marchionne siano delle vittorie di Pirro. Restituire democraticità ai referendum offesi, ricorrere in via giudiziaria per sancire il primato del diritto e dello stato di diritto, stare a fianco dei sindacati progressivamente emarginati fino all’esclusione è una forma di resistenza necessaria anche per riportare il lavoro e l’impresa alle loro vere funzioni e ai loro autentici valori.
Si anche l’impresa svuotata fino a farne un fascio di scartoffie, un insieme di contratti – stipulati con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Secondo quella “flessibilità” rigidamente precaria che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento. Imprese dove regnano arbitrarietà e discrezionalità, oltraggio delle garanzie e dei diritti, aziende apolidi, senza luogo né leggi né uomini.
Facciamone una sentenza storica: l’interesse a essere liberi degli operai della Marelli, interessa tutti noi.