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La Diane Arbus che è in me

Creato il 05 gennaio 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

Così se un giorno ti trovi nel più squallido dei parrucchieri cinesi, una sera ti ritrovi nel peggiore dei bar di Caracas a sorseggiare un po’ di schifo della vita

 

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Se inaspettatamente abdichi al tuo appuntamento fisso col parrucchiere di fiducia e finisci nel peggio hair salon dei cinesi è giunto il momento di considerare che in te pulsi un cuore di Diane Arbus, un cuore di creatura curiosa verso ciò che è brutto, sporco e cattivo.

Lei con la sua macchina fotografica a immortalare tra i ritratti più famosi al mondo, io con il mio sguardo attonito inchiodato sulla danza tribale di un paio di mosche intorno a prodotti chimici di sconosciuta natura, spaventosi alla vista e all’olfatto. Mi raggelano i sorrisi pietrificati dei piccoli operai affaccendati che non hanno capito che vuoi solo “una spuntatina” e tirano fuori forbici da giardinaggio e pennello Cinghiale.

Tutto all’interno di quell’angusto spazio tappezzato di poster di cinesi con tagli improbabili invoca l’asl e io penso a Diane e agli scatti che avrebbe fatto, lei così affezionata a tutto ciò che avrebbe potuto disturbare la vista del benpensante pensiero americano, ma allo stesso tempo attrarre. In fondo il gusto per il reietto è un piacere tutto borghese, un piacere che nasce da un’infanzia sicura e ovattata e che cresce con l’amuchina pre e post pasto, è la curiosità per ciò che per noi è selvaggio, diverso, deforme. Diane abbandonò il suo confortevole e ricco nido di una famiglia di famosi pellicciai per andare a fotografare transessuali, nani e prostitute.

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E oggi che transessuali, nani e prostitute rientrano, anche grazie a lei, in ciò che il sentimento comune può accettare senza esserne spaventato ecco che ci ritroviamo a scavare nei diversi strati di civilità suburbane in cerca di realtà ripudiate. Così se un giorno ti trovi nel più squallido dei parrucchieri cinesi, una sera ti ritrovi nel peggiore dei bar di Caracas a sorseggiare un po’ di schifo della vita, con un vecchio tossico che ti racconta di come spende la sua pensione di inabilità, il vecchio che intona bestemmie perché ha buttato la carta sbagliata, l’immigrato che versa le sue lacrime di miseria in un bicchiere di aceto. Il tuo obiettivo fotografa immagini d’impatto aberranti, ma non può evitare di scattare, perché io sono Jane e tu sei Tarzan, il selvaggio misterioso, perché io sono la Madame Bovary annoiata dai miei libri tutti uguali, dalla mia giornata scandita di impegni monotoni, dalla mia prevedibile sicurezza.

E’ l’assillo perverso di chi ha bisogno di qualcosa di nuovo che ci spinge ad esplorare zone remote ed emarginate della città, il tedio eccitato all’idea del diverso che vive a condizione che ci sia quella fondamentale certezza che, concluso il taglio di capelli (sbagliato) e concluso il bicchiere di aceto, non sguazzeremo in quel fetore ancora per molto, ma torneremo a casa a farci una doccia calda e avvolgerci in teli profumati. Perché è bello fotografare il fango dei maiali, ma senza sporcarsene troppo le mani.

 


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