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La diaspora dei Palestinesi: la più numerosa e frammentata

Creato il 22 aprile 2014 da Maria Carla Canta @mcc43_

mcc43

In modo confuso, ma pervicacemente applicato, l’Onu ha reso i Palestinesi una diaspora d’eccezione nella galassia mondiale dei rifugiati. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, UNHCR fondato il 14 dicembre 1950, è preposto alla tutela dei diritti di tutti i rifugiati del mondo,  tranne che dei Palestinesi.
Non esiste alcun ente internazionale che abbia il compito istituzionale di difendere i Diritti dei Palestinesi.

Comitato internazionale per i diritti dei Palestinesi

Committee on the Exercise of the Inalienable Rights of the Palestinian People

Nel 1975 l’ONU maschera questa vergogna creando un Comitato di Nazioni (Afghanistan, Belarus, Cuba, Cipro, Guinea, Guyana, India, Indonesia, Laos, Madagascar, Malaysia, Mali, Malta, Namibia, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Senegal, Sierra Leone, South Africa, Tunisia, Turchia, Ucraina e Venezuela!) cui delega la stesura di un programma per autodeterminazione, indipendenza e  sovranità, nonché per il ritorno alle case e proprietà perdute. Nulla di concreto né di politico, una iniziativa formale.

La specificità del rifugismo palestinese e le manovre dell’Onu

Un’organizzazione dedicata interamente ai Palestinesi esiste dall’8 dicembre del 1949 ed è l’UNRWA: “Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro dei Profughi Palestinesi nel Medio Oriente”. La sua competenza, come si vede, non attiene ai diritti ma all’assistenza per renderli economicamente indipendenti. Scopo non raggiunto, fondamentalmente perché chi non ha diritti non può nemmeno contare sulla libertà di crearsi una professione o ottenere un impiego e accidentalmente perché i Palestinesi sono un popolo disperso che vive situazioni difformi, in progressivo peggioramento per le ricadute dell’instabilità del Medio Oriente.

Originariamente il mandato  dell’ UNRWA riguardava i  fuoriusciti del ’48: i profughi della  Nakba. In pratica, solo quelli che potevano dimostrare di essere stati residenti in Palestina, di aver perso, andandosene non per propria volontà, sia la casa sia i mezzi di sussistenza, e i loro discendenti. 

Prima complicazione: non tutti i profughi provenivano direttamente dalla Palestina; alcuni avevano prima cercato rifugio in paesi come la Libia e il Kuwait, da cui in seguito erano stati espulsi.
Seconda complicazione: il mandato Onu escludeva i rifugiati per motivi verificatisi dopo la Nakba, quali i profughi del 1967 a causa della Guerra dei Sei giorni.
Terza complicazione: non tutti i rifugiati si registrarono negli elenchi dell’UNRWA; per varie e complesse ragioni molti si registrarono solamente presso gli stati di accoglienza.

Secondo le “stime” l’UNRWA si occupa di circa 5 milioni di persone dislocate in 59 campi profughi riconosciuti, ubicati in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza.

Un unico dato accomuna tutti i Profughi Palestinesi: la sottile perfidia dell’esclusione dalla protezione UNCHR perché, a differenza degli altri profughi che provengono da uno stato, i Palestinesi provengono dal nulla. Prima furono sudditi dell’Impero Ottomano, dopo la sconfitta turca nella Prima Guerra Mondiale passarono sotto il protettorato britannico, infine la loro terra venne quasi interamente occupata dallo stato di Israele. Lo specifico dramma dei Palestinesi è tale che alla condizione di rifugiati si sovrappone quella di apolidi.

Un’altra circostanza concorre a rendere negletta la loro condizione; il sostegno internazionale che i “Palestinesi” ricevono da singoli e da organizzazioni è inquinato da un latente inconfessabile antisemitismo, che devia l’attenzione su quelle realtà che direttamente subiscono le azioni repressive e spesso criminali del governo di Israele. E’ così che di Palestinesi si parla di volta in volta per bombardamenti su Gaza o per le quotidiane vessazioni in Cisgiordania.

Paradossalmente, solo le angherie degli israeliani porterebbero agli onori della cronaca i Profughi, rendendo “semplice” da sostenere la loro complicatissima situazione; a riprova di ciò si consideri il silenzio sull’esodo dei Palestinesi dalla Siria, dove il conflitto non coinvolge i soldati di Tel Aviv. Nel campo di Yarmouk, in pratica una città di 150.000 persone, sono rimasti poco più del 15% degli abitanti, ma la loro condizioni di eterni scacciati non ha colpito i grandi media e ben poco le tante sigle pro-palestinesi; fa eccezione un articolo di inchieste.repubblica

I numeri e le segmentazioni del popolo Palestinese

Organismi sovranazionali e stati non hanno interesse a contare esattamente quanti siano i Palestinesi, si parla quindi di “stime”. Sono circa 7 milioni quelli che nel mondo definiscono se stessi Palestinesi  e sono così segmentati.

1) I Non  Rifugiati

-Sono i Palestinesi che risiedono nei confini dello stato di Israele e hanno la cittadinanza israeliana, pur essendo oltre il 20 % della popolazione vivono come cittadini di seconda categoria .
-Sono quelli che fuggirono prima della Nakba verso i paesi vicini, soprattutto in Libano: persone colte e benestanti che travasarono le loro risorse  materiali, professionali e culturali nel misero Libano di quel tempo. A questi fu data subito e con entusiasmo la nazionalità libanese.
-Sono i Palestinesi della diaspora in Europa e in America: persone emigrate individualmente, direttamente dalla Palestina o fuoriusciti dai campi profughi.
-Sono i residenti della Cisgiordania, o West Bank: abbozzo dello “stato” palestinese recentemente accolto all’Onu come osservatore non membro.
-Sono i residenti nella Striscia di Gaza, soggetti più di altri alle mutevoli condizioni dei paesi vicini, target privilegiato delle incursioni aeree israeliane.
- Sono i residenti in territori occupati da Israele che li amministra: Gerusalemme Est e le Altu
re del Golan.
- Sono i residenti nella Penisola del Sinai, che appartiene all’Egitto.

2) I Rifugiati

-Sono i Profughi nei vari paesi del Medio Oriente:  comunità differenziate a seconda della normativa applicata dallo stato di accoglienza (diritti di cittadinanza  piena in Giordania,  limitata in Siria,  gli stati più avanzati nei loro confronti)
-Sono i Profughi dalle zone occupate dagli Israeliani che risiedono nei campi profughi della West Bank e di Gaza.
-Sono i nuovi profughi arrivati in Egitto dalla Siria, che vivono in campi “non ufficiali”

-Sono, infine, i Profughi nel Limbo: quelli che vivono nei 12 campi del Libano


In tutta evidenza, per il popolo di Palestina la geografia della dispersione e la stridente varietà di situazioni si accompagnano a una pluralità donna palesrinesedi culture diasporiche. Il bilanciamento delle profonde differenze  che si sono formate avviene nella riunificazione immaginaria di tutte le comunità allorché l’ingiustizia storica sarà sanata e il “Diritto al Ritorno” realizzato. Occorrono aiuti esterni affinché tale immaginario conservi la sua forza di coesione e  
la legittimazione dello Stato di Palestina come osservatore all’Onu permette, per esempio, di chiedere all’ UNRWA l’insegnamento nelle sue scuole della storia e della geografia della Palestina.La questione della memoria e della narrazione è, ad oggi, un tema centrale per l’identificazione dell’identità palestinese che, privata dell’ufficialità della Storia, continua a vivere grazie al racconto orale ” osserva Kassem Aina, direttore della storica Ong palestinese in Libano Beit Aftal Assomoud. 

 I Profughi in Libano

I Profughi dei campi libanesi sono il gruppo che si differenzia maggiormente dal resto del popolo palestinese. Fortemente politicizzata, è la componente diasporica che ha visto l’esordio della resistenza palestinese che continuò per ventitré anni fino a quando, per l’assedio sia della Siria che di Israele, venne sconfitta e  la leadership forzatamente dislocata da Beirut a Tunisi. Furono poi i Palestinesi dei territori occupati a riprendere in mano la fiaccola dei fedayn libanesi e a trasferire l’Intifada nel cuore stesso della Palestina.
Le vicende del Palestinesi in Libano sono fortemente intrecciate con quelle della nazione stessa, sia in veste di attori sia come bersaglio di forze a loro opposte.

Bashir e Pierre Gemayel

Bashir e Pierre Gemayel

All’inizio degli anni Settanta il Libano era sull’orlo di quella violentissima guerra civile che durò fino al 1990. La componente cristiano-maronita, la più ricca e nazionalista del paese che rivendicava a sé la vera libanesità, temeva di essere soverchiata dall’islamici. L’ala armata della Falange, milizie fasciste, di Pierre Gemayel  e la milizia delle Tigri del Libano nel 1976 assediano e distruggono alcuni campi: è il massacro di Tall el-Zatar.  Tanto vale la protezione dell’UNRWA in simili circostanze!  Nel 1978 arrivano gli israeliani, è la loro prima invasione del Libano. I campi profughi del Sud sono assediati e bombardati con l’obiettivo preciso di distruggere l’OLP comandata da Arafat.  Con la seconda invasione, giugno del 1982, l’esercito israeliano si spinge fino alla capitale. Beirut è occupata, i campi profughi meridionali travolti e Israele sperimenta sui Palestinesi le bombe al napalm e al fosforo giallo. E’ anche l’anno del massacro di Sabra e Chatila. Sotto il pretesto dell’assassinio del neo-eletto presidente maronita Bashir Gemayel (figlio di Pierre)  le Falangi , comandate da Elie Hobeika , con il supporto israeliano irrompono  nel campo di Chatila e nella zona adiacente di Sabra, dove ormai erano rimasti soprattutto donne bambini e anziani; nel corso di due giorni sterminano a freddo oltre duemila persone.  Un massacro che nessuna tattica di guerra poteva giustificare perché fin dall’estate era stata decisa, sotto l’egida degli Stati Uniti, l’espulsione dal Libano dei quadri dell’OLP e di migliaia di fedayn, in parte già allontanatisi dai campi. Ferocia pura, condannata finora solamente dal Tribunale di coscienza di Kuala Lumpur.  Le truppe israeliane, costrette dalla pressione internazionale a sgombrare da Beirut nel 1985 rimasero nel Libano meridionale, asserragliando i campi profughi. I campi della capitale erano assediati dall’esercito libanese, quelli settentrionali e della valle della Beqaa controllati da Siria. Durante la guerra civile si formarono le milizie dei musulmani sciti, Hezbollah, e furono queste a sconfiggere Israele e  i suoi alleati dell’ESL, esercito libero libanese, liberando il Libano meridionale nel 2000.

I diritti inesistenti dei Palestinesi in Libano

Se l’UNRWA ha per mission condurre i profughi all’autonomia economica, in Libano non vi è riuscita. Essi vivono della microeconomia del campo e dei sussidi delle Ong. Non possiedono documenti, non possono quindi essere assunti e costituiscono la massa lavoratrice occupata saltuariamente, soprattutto nell’edilizia, e sottopagata. Non possono godere di diritti di proprietà fuori dal campo, sovraffollato, entro cui sono registrati. Aleatoria è la concessione dei permessi per far entrare entro i confini del campo i materiali da costruzione. Se un profugo riesce, miracolosamente visti i costi dell’istruzione, a conseguire una laurea la legge lo bandisce dall’esercizio della professione.
In questa condizione l’appartenenza politica diventa un forte senso d’identità, si creano fazioni e talvolta nascono conflitti, come all’inizio di aprile quando, in un campo vicino a Sidone, si sono affrontati per due ore i sostenitori dell’ex comandante di Fatah e i membri di Ansar Allah, gruppo vicino a Hezbollah, lasciando sul terreno otto morti.

Tutto quanto descritto finora evidenzia un dilemma gravissimo e specifico della diaspora palestinese in Libano. I corni del dilemma consistono nella visione strategica del futuro, ma segnano un’ulteriore segmentazione: quella anagrafica. Da un lato: la memoria, l’identità, lo sradicamento che si riassumono nel Diritto al Ritorno, sacro per le generazioni che hanno ricordi della Palestina. Dall’altro: la rivendicazione dei diritti fondamentali lì ove si trovano, nel Libano, attraverso un’integrazione che dia gli stessi diritti politici, sociali ed economici di tutti gli altri libanesi.
Esiste una complicazione ulteriore per questi profughi nel perseguire il Diritto al Ritorno.  La maggioranza di coloro che affluirono in Libano nel ’48 provenivano dall’alta Galilea, da villaggi che ora non è più possibile esigere perchè con gli accordi di Oslo sono diventati parte di un territorio non più contrattabile, ceduto irrevocabilmente ad Israele.

In realtà le due opzioni non si escluderebbero, ma è il Libano stesso a creare questa precondizione secondo la quale una scelta esclude l’altra: la negazione dei loro diritti fondamentali è da sempre presentata dalle autorità come una cautela psicologica, affinché “non dimentichino” e continuino a volere il Ritorno.

Abu Mazen firma

Abu Mazen firma le adesioni alle organizzazioni internazionali

Quest’artificiosa inconciliabilità è altresì strumento, di volta in volta, di negoziazione, ricatti, lusinghe del mondo politico. Quello interpalestinese, le élite politiche di Ramallah e di Gaza, quello esterno: Israele, la Lega Araba e l’intero consesso internazionale.Con la Palestina accolta all’Onu come stato osservatore qualcosa si potrà ottenere nel campo dei diritti anche per questi rifugiati. 

 Il prossimo incontro con i Palestinesi del Libano

La Delegazione della Onlus Un Ponte per.. , che da anni collabora con l’organizzazione palestinese di Beirut Beit Aftal Assomoud, sarà in Libano dal 24 aprile all’1 maggio. Una visita di solidarietà prima di tutto morale, che ha per i Profughi un’importanza vitale, non è esagerato dire, come dimostrano queste  dichiarazioni raccolte dall’antropologa Erika Lazzarino, dell’Univerità di Bologna,  che ha soggiornato a lungo  nei campi, precisamente per motivi di conoscenza e ricerca.

“Per ciò che riguarda gli stranieri che vengono qui e ci aiutano e raccolgono le nostre testimonianze, come adesso, io penso che il loro sia un lavoro utile alla diffusione della conoscenza delle condizioni disumane in cui vivono i palestinesi. (Kassem Mouhammad Abou Jamous, campo di Shatila)

Spero davvero che tu possa raccontare alla tua gente cosa hai sentito, visto e percepito di noi profughi palestinesi qui in Libano (Mahmoud Mohamad Abdel Sallam Abul Hiejaa, campo di Burj El-Barajneh)

Ti ringrazio per quello che stai facendo, perché diffondendo queste testimonianze tu supporti la resistenza che i palestinesi stanno portando avanti. (Lofte Mahmoud Setta, campo di Burj El-Barajneh)

A proposito del lavoro degli stranieri che vengono qui come te, penso che sia buono perché abbiamo avuto la prova che ci aiutano davvero, stanno dalla nostra parte, a differenza, per esempio, di tanti arabi e musulmani che non ci amano affatto. Di gente che mente e odia i palestinesi ce n’è in tutto il mondo. (Khajrija Ali Dghein, campo di Burj El-Barajneh)

Pensando a questa necessità espressa dai Profughi, il post termina, mentre mi preparo a prendere parte alla Delegazione di Un Ponte per…, con il sincero ringraziamento per chi ha letto, per chi ricorderà, per chi informerà coloro che ignorano la situazione al limite della sopportazione nella vita quotidiana,la persistente memoria dell’offesa e il tormento che logora le condizioni di salute dei Palestinesi Profughi in Libano. 

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