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La diceria dell’untore

Creato il 11 maggio 2012 da Albertocapece

La diceria dell’untoreAnna Lombroso per il Simplicissimus

È proprio la diceria dell’untore: Obama teme il contagio dell’Europa.

I grandi “esportatori” temono l’importazione del fallimento, dell’egoismo, della flessibilità sregolata, della perdita di potere e sovranità degli stati, dell’incertezza che squassa valori morali e diritti. E certo l’Unione Europea, dimentica del processo tremendo che ha portato all’ascesa del nazismo, non trasferisce in America buona memoria. Se Obama dimentica chi è stato l’untore, da dove ha preso forza rapace e iniqua tutto questo.  Da loro è stata avviata la nuova fase del capitalismo finanziario, che si apre all’inizio degli anni ’80 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, che ha fatto irrompere sulla scena economica mondiale, sia pure in modi tumultuosi, miliardi di contadini poveri, ma che ha provocato un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia.

La loro globalizzazione ha comportato  formidabili disuguaglianze e ha determinato una gigantesca inflazione finanziaria.  A  differenza di quanto accade nel mercato dei beni reali, in quello dei titoli non è esistito un meccanismo compensativo in grado di frenare una domanda eccessiva con l’aumento dei prezzi:  l’incremento del prezzo dei titoli ne aumentava  la domanda per l’attesa di nuovi guadagni,  alimentando un meccanismo cumulativo sfrenato. I debiti si rinnovano sistematicamente, facendo del nuovo capitalismo finanziario, come è stato detto, quel perverso sistema dove i debiti non si rimborsano mai. Le onde del debito si accavallano le une alle altre sospinte dalla fiducia nella crescita del sistema. Aumenta  la liquidità in proporzioni smisurate rispetto al prodotto reale, con un effetto moltiplicatore che nel 2007, al momento della crisi, lievita di dodici volte.

Ma quando si disegna uno scenario recessivo e viene a mancare la fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento, la liquidità si distrugge mentre i debiti restano, provocando ondate di fallimenti, quella feroce instabilità, quella tenebra che stiamo attraversando.  La violentissima restrizione monetaria del settore privato ha portato al fallimento della Lehman, al crollo dei mercati, al prosciugamento del credito interbancario, alla drastica diminuzione dei prestiti a famiglie e imprese e quindi alla caduta della domanda aggregata, della produzione e dell’occupazione nei Paesi più avanzati.

La crisi ha colpito al cuore la teoria neoclassica secondo cui i mercati sono razionali e si auto-regolano, anche grazie a principi “morali” di autoconservazione. Si dovrebbe tornare agli Stati, se non fossero annegati nei debiti e annientati dalla perdita di sovranità.

Sono stati loro con quell’incivile atto di fede nella smateralizzazione   della moneta, a far crescere l’egemonia della finanza da funzione subalterna, a funzione autonoma fino a funzione dominante, con effetti apertamente speculativi.

Ma forse Obama teme il contagio dell’impotenza europea e del suo egoismo sucida che oggi si verbalizza nell’invito che Barroso rivolge alla Grecia: abbandoni pure l’euro e la casa comune. Insomma l’Europa matrigna e fiera di esserlo. O nel vibrato rifiuto della Merkel, una baccante resa ebbra dalla paura della solitudine e della sconfitta, che dice ancora una volta no agli eurobond.

Dimentichi delle lezioni della storia come quando negli anni trenta vennero messi in campo  massicci interventi statali nell’economia reale (protezionismo, nuove regole, nazionalizzazioni), la crisi attuale è stata fronteggiata con la sostituzione dell’indebitamento privato con quello pubblico e con l’espansione dell’offerta di moneta da parte delle Banche Centrali.

Ma l’intervento pubblico che ha privilegiato il salvataggio delle banche, è stato inesistente sul lato della crescita. I governi   puniti per i loro disavanzi   dalle stesse agenzie di rating, che non avevano mosso ciglio di fronte alle malversazioni della finanza, depauperano le spese sociali addossando i costi sui ceti più deboli, impoverendo il welfare, abbassando la guardia e inchinandosi alle pretese dello stato di necessità che divora forze, annienta garanzie, abbatte l’edificio dei diritti.

Obama teme che la malattia che hanno esportato riesploda in casa. Ha ragione, l’avidità  è un morbo incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento, fine a se stesso.   É ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che sta avvenendo ora che  la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sta sfociando in una rovinosa recessione. C’è chi dice che è necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia del tipo di quello che contraddistinse, alla fine della seconda guerra mondiale, l’età dell’oro, con l’abbandono del capitalismo finanziario sregolato per tornare a un capitalismo governato. Insomma passando da una malattia mortale a una malattia cronica, un febbre da temperare con accorgimenti benevoli e con un po’ di omeopatia. Ma forse è meglio diventare medici di noi stessi,   trovare una cura alternativa per la peste, le erbe medicinali non bastano.


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