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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 11

Creato il 19 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

11. COME TUTTO PARE SPIEGARSI

Ci lasciarono. Gli inglesi erano spariti per primi.

Signore, fino ad allora avrei trattato da miserabile un uomo, non importa chi, di cui m’avessero detto che aveva picchiato una donna. Eppure, io non so per quale ascendente su me stesso riuscii a contenermi davanti a quella. Le mie dita s’aprivano e si richiudevano, come per strangolare un collo. Si svolgeva in me una lotta spossante tra la mia collera e la mia ma volontà.

Ah! E di certo il segno supremo dell’onnipotenza femminile, questa immunità di cui noi le corrazziamo. Una donna vi insulta in faccia, vi oltraggia: la salutate. Vi picchia: vi proteggete, ma evitate che si ferisca. Vi rovina: lasciatela fare. Vi inganna: non rivelate niente, per paura di comprometterla. Spezza la vostra vita: uccidetevi, per favore! – Ma che mai, per vostra colpa, la più fugace sofferenza non venga ad indolenzire la pelle di questi esseri squisiti e feroci per i quali la voluttà del male sorpassa quasi quella della carne.

Gli Orientali non le trattano come noi, loro che sono i grandi voluttuosi. Le hanno tagliato le unghie perché i loro occhi fossero più dolci. Dominano la loro malevolenza per meglio scatenarne la sensualità. Li ammiro.

Ma per me, Concha rimaneva invulnerabile.

Non m’avvicinai. Le parlai a tre passi di distanza. Lei era sempre in piedi contro il muro, le mani incrociate dietro la schiena, il petto curvo e i piedi giunti, tutta dritta sulle sue lunghe calze nere, come un fiore in un vaso sottile.

«Ebbene!» cominciai, «che hai da dirmi? Avanti, inventa! difenditi! menti ancora; menti così bene!»

«Ah! Stupendo!» gridò. «È me che accusa! Entra qui come un ladro, dalla finestra, spacca tutto, mi minaccia, rovina la mia danza, fa fuggire i miei amici…»

«Taci!

«…forse mi farà cacciare di qui, e ora sta a me rispondere! Sono io che ho fatto il male, vero? Questa scena ridicola, sono io che la cerco! Guarda, lasciami, sei troppo stupido!»

E siccome, dopo la sua danza movimentata, perle di sudore nascevano in mille punti della sua pelle brillante, prese in una credenza una spugnetta, e si frizionò dal ventre alla testa come se uscisse dal bagno.

«Così», ripresi, «ecco quel che facevi nella casa stessa in cuit i vedo! Ecco il tuo mestiere! Ecco la donna che amo!»

«E non ne sapevi niente tu, innocente?»

«Io?»

«Ma no. È così. Tutti gli spagnoli lo ripetono; lo si sa a Parigi e a Buenos-Aires; bambini di dodici anni a Madrid vi dicono che le donne danzano tutte nude al primo ballo di Cadice. Ma tu, tu vuoi farmi credere che non t’avevano detto nulla, tu che non sei sposato, tu che hai quarant’anni!»

«Avevo dimenticato.»

«Aveva dimenticato! Viene qui da due mesi, mi vede salire quattro volte la settimana nella saletta…»

«Taci, Concha, tu mi fai spaventosamente male.»

«Sta a te, dunque! Mi vendicherò, Mateo, di quello che mi hai fatto stasera, perché tu agisci con cattiveria, per una gelosia stupida, e mi chiedo con quale diritto! Perché, alla fine, chi sei tu per trattarmi così? Sei mio padre? no! Sei mio marito? no! Sei il mio amante…?»

«Sì! sono il tuo amante! lo sono!»

«Davvero! ti accontenti di poco!»

Scoppio a ridere.

Ero impallidito di nuovo.

«Concha, bambina mia, dimmi, parlami, ne hai un altro? Si sei di qualcuno, ti giuro che ti lascio. Tu hai solo una parola da dire.»

««Io sono mia, e bado a me stesso. Non ho niente di più prezioso che me, Mateo. Nessuno è abbastanza ricco per comprarmi a me stessa.»

«Ma quegli uomini, quei due uomini che erano qui poco fa…»

«Cos’altro? Li conosco io?»

«È proprio vero? Tu non li conosci?»

«Ma no, non li conosco! Dove vuoi che li abbia visti? Sono Inglés che sono venuti con una guida d’albergo. Partono domani per Tangeri. Non mi sono affatto compromessa, amico mio.»

«E qui? qui?»

«Su, guarda: è una camera questa? Cerca in tutta la casa: c’è un letto? Insomma, li hai visti, Mateo. Erano vestiti come dei manichini, il cappello in testa e il mento sul bastone. Tu sei pazzo, te lo dico, sei pazzo a fare uno scandalo del genere quando non merito un rimprovero da te.»

Se si fosse difesa peggio ancora, credo che l’avrei giustificata. Avevo un tal bisogno di perdono! Temevo solo di sentirla confessare.

Un’ultima questione mi torturava già prima.

La posi tutto tremante:

«E il Morenito?… Concha, dimmi la verità. Questa volta, voglio sapere. Giurami che tu non mi nasconderai nulla, che mi dirai tutto se c’è qualcosa. Te ne supplico, bambina mia!»

«Il Morenito? Era nel mio letto stamani.»

Restai un momento incosciente, poi le mie braccia si richiusero su di lei, e la strinsi non sapendo io stesso se volessi soffocarla o rapirla a qualcuno immaginario.

Lei comprese, e tutta ridente, gridò:

«Lasciami! lasciami, Mateo. Tu adesso sei pericoloso. Tu mi prenderesti con forza in un accesso di gelosia. Bene. Ora, resta dove sei! Ti spiegherò… Mio povero amico, non c’è motivo per tremare come fai, te l’assicuro.»

«Tu credi?»

«Il Morenito abita con le sue due sorelle. Mercédès e la Pipa. Sono povere; c’è solo un letto e nemmeno largo per loro e il fratello. E, dato che fa così caldo, preferiscono dormire meno strette, dopo le loro otto ore di danza, e mandano il piccolo dalle vicine. Questa settimana, mamma fa l’Adorazione perpetua alla parrocchia; lei non c’è quando sono a letto; allora Mercédès m’ha chiesto se avessi un posto per suo fratello e le ho risposto sì. Non vedo cosa possa inquietarti.»

La guardavo senza rispondere.

«Oh!» riprese, «se ancora quella cosa, sii tranquillo! Non gli cedo più di quanto gli cedono le sue sorelle, lo sai. Credimi sulla parola. è già tanto se m’abbraccia quattro o cinque volte prima di dormire, e poi mi dà la schiena, come se fossimo sposati.»

Tirò la calza sulla coscia destra e aggiunse senza affrettarsi:

«Come se fossi con te.»

L’incoscienza, l’arditezza o l’astuzia di quella donna, poiché non sapevo più a cosa attenermi, riuscivano a fuorviare tutti i miei sentimenti, tranne quello della sofferenza morale. Ero ancor più infelice che irresoluto: ma infelice da piangere.

La presi sulle mie ginocchia, dolcissimamente. Si lasciò andare.

«Bambina mia», le dissi, «ascoltami. Non posso più vivere così come faccio da un anno a tuo capriccio. Bisogna che tu mi parli in tutta franchezza e, forse, per l’ultima volta. Soffro in modo abominevole. Se tu resti ancora un giorno in questo Ballo e in questa città, non mi rivedrai mai più. È quello che vuoi, Conchita?»

Rispose, e con un tono così nuovo che mi sembrava di sentire un’altra donna:

«Don Mateo, non mi avete mai capita. Avete creduto di perseguitarmi e che io mi rifiutassi a voi, quando al contrario sono io ad amarvi a volervi per tutta la mia vita. Ricordate la Fábrica. Siete voi che m’avete abbordata? Siete voi che mi avete portata via? No. Sono io che ho corso dietro di voi in strada, che vi ho trascinato da mia madre, e trattenuto quasi a forza tanto avevo paura di perdervi. E il giorno dopo… ve lo ricordate? Siete entrato. Ero sola. Non m’avete nemmeno abbracciata. Vi vedo ancora, nella poltrona, le spalle alla finestra… Mi sono gettata su di voi, ho preso la vostra testa tra le mie mani, la vostra bocca con la mia bocca e, – non ve l’avevo mai detto, – ma ero giovanissima allora ed è in quel bacio, Mateo, che ho sentito fondersi in me il piacere per la prima volta nella mia vita… Ero sulle vostre ginocchia, come adesso…»

La strinsi tra le mie braccia, spezzato dall’emozione. M’aveva riconquistato con due parole. Si prendeva gioco di me come voleva.

«Non ho mai amato che voi», proseguì, «da quella notte di dicembre in cui vi vidi sul treno, quando avevo lasciato il mio convento d’Avila. Io vi amai per prima cosa perché siete bello. Avete degli occhi così brillanti e teneri che mi sembrava che ogni donna avrebbe dovuto innamorarsene. Se sapeste quante notti ho pensato a quegli occhi. Ma poi vi ho amato soprattutto perché siete buono. Non avrei mai voluto legare la mia vita a quella d’un uomo egoista e bello, perché voi sapete che amo troppo me stessa per accettare d’essere felice a metà. Volevo tutta la felicità e ho visto ben presto che se ve la chiedevo, voi me l’avreste data.»

«Ma allora, cuore mio, perché questo lungo silenzio?»

«Perché non mi accontento di ciò che basta alle altre donne. Non solo voglio tutta la felicità, ma la voglio per tutta la mia vita. Io voglio sposarvi, Mateo, per amarvi ancora quando non mi amerete più. Oh! non temete niente: non andremo in chiesa, né davanti all’alcalde [1]. Sono una buona cristiana, ma Dio protegge gli amori sinceri, e io andrò in paradiso molto prima delle donne sposate. Non vi chiederò di sposarmi pubblicamente perché so che è impossibile… Voi non chiamerete mai doña Concepcion Perez de Diaz la donna che ha danzato nuda nell’orribile bettola in cui siamo, davanti a tutti gli Inglés che son passati…»

Scoppiò in lacrime.

«Concepcion, bambina mia», dissi sconvolto, «calmati. Io t’amo. Farò ciò che vorrai.»
«No», gridò in singhiozzi. «No, non lo voglio! E una cosa impossibile! Non voglio che voi insudiciate il vostro nome con il mio. Vedete, adesso, sono io che non accetto più la vostra generosità. Mateo, noi non saremo mai sposati per il mondo, ma voi mi tratterete come la vostra donna e mi giurerete di trattenermi per sempre. Non vi chiedo una gran cosa: solamente una casetta mia da qualche parte vicino a voi. E una dote. La dote che voi dareste a colei che vi sposasse. In cambio, io non ho nulla da darvi, anima mia. Nient’altro che il mio amore eterno, con la mia verginità che ho conservato per voi contro tutti.»


[1] Il sindaco.



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