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La dura legge del quadrotto – l’inizio

Creato il 20 marzo 2012 da Unarosaverde

Si discuteva, qualche giorno fa, sui pro e i contro degli uffici open-space e, come è naturale,  c’erano i fautori e i contrari. Io sono, per esperienza, tra i contrari ma, dato che non ho voce in capitolo sulla mia ubicazione lavorativa,mi sono rassegnata.

Ho trascorso anni dividendo il mio tempo in due luoghi: a lezione in aule, piccole o grandi, in funzione del periodo, e nella mia stanza, in assoluto silenzio, per studiare. Porta chiusa, nessun cellulare perché allora non c’erano, una breve pausa merenda e lunghe ore di concentrazione. Solo la gatta, se mi faceva l’onore di eleggere il mio letto per il pisolo pomeridiano, era autorizzata ad entrare, previa grattatina di richiesta alla porta.

Immaginate l’angoscia quando, il primo giorno in azienda, una multinazionale,  si  spalancò davanti a me la porta di un enorme open-space, in cui lavoravano un centinaio di persone che andavano avanti ed indietro, tra i telefoni che squillavano, le urla che provenivano dagli uffici sui lati e il chiacchiericcio di fondo che iniziava di prima mattina e si spegneva solo dopo le sei di sera. Come avrei fatto a concentrarmi? Come avrei potuto sostenere una conversazione telefonica o di persona su questioni delicate che richiedevano attenzione in mezzo a tutto quel frastuono?  Nel giro di cinque anni avrei occupato, per strane migrazioni forzate di cui nessuno capiva il motivo, ognuna delle sei grandi suddivisioni dell’ufficio,  arredate ciascuna con due quadrotti di scrivanie e separate da armadietti bassi.

In ogni quadrotto ero circondata: due scrivanie si affacciavano senza divisioni una sull’altra, mentre un’asse ondulata le staccava dalle due adiacenti.  A volte andava bene, altre male. Non tutti avevamo lo stesso tipo di incarichi e ne risultava uno sfasamento tra necessità e modalità di esecuzione: alcuni di noi analizzavano e producevano dati che richiedevano attenzione e decisioni, altri trascorrevano ore al telefono a contattare i fornitori con voce ferma e ampie doti di comunicatività.

Capitava di condividere lo spazio con una collega espansiva e adorabile che era però solita emettere periodici gridolini ed esclamazioni  che avevano l’effetto di squilli di tromba. Oppure con quella che radunava i propri argomenti di conversazione in tre grosse categorie: la propria vita sessuale, ivi inclusi i vantaggi e i metodi della depilazione integrale, le proprie conversazioni pseudo-psicologiche col fidanzato di turno e le virtù alimentari dei diversi gusti di yogurt. Oppure ancora con uomini in carriera cattiva e abbondanza di stress che vivevano ore nervose e ricche di turpiloquio e testosterone. Lunghi periodi li ho invece trascorsi, per fortuna, con una collega ed un collega della specie quieta: concentrazione mentre si lavorava, sguardo d’intesa per la pausa caffè e, ogni tanto, una spalla su cui piangere quando la vita tra gli squali si faceva troppo dura.

Ho imparato a dimenticarmi del mondo attorno, a tenere bassa la voce durante le conversazioni telefoniche, a non morire di nervoso e di rabbia quando il mio capo, che era convinto che il metodo motivazionale migliore fosse quello di allestire patiboli pubblici per qualunque sciocchezza, passava di lì e, ad alta voce, sceglieva la vittima del giorno.

Ho detestato ogni secondo trascorso in quell’ambiente e, una volta presentate le dimissioni, ho sperato con tutte le mie forze di essere catapultata nella scena del classico film in cui la protagonista, in vaghi tentativi di carriera, vede salire la propria posizione parallelamente alla diminuzione dello spazio occupato da altri intorno a sé.

Naturalmente mi sbagliavo. (continua)


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