Tutti gli esseri umani nascono con la predisposizione a vivere in piccoli villaggi, a contatto con la natura
Non è solo una fuga dallo stress della città. È il richiamo della vita rurale dettato dalla nostra stessa natura. Antropologi, medici e neuroscienziati sono tutti d'accordo. Siamo biofili. E nel mondo agricolo stiamo meglio.
La terra è bassa recita un vecchio proverbio contadino, a sottolineare l'enorme fatica richiesta dal lavoro agricolo che costringe a piegare la schiena. Eppure, mai come in questi ultimi anni, la campagna sta prendendosi la rivincita, dopo decenni di fuga verso la città.
Anche se il processo di urbanizzazione costante ha fatto sì che le persone che risiedono nelle città abbiano superato quelle che vivono nelle campagne, la vita metropolitana sta svelando le sue controindicazioni e le promesse non mantenute. Ritmi di lavoro troppo pressanti, ansia e incertezza per il futuro, limiti nelle relazioni umane, oltre ad aspetti molto concreti come aria inquinata e disoccupazione stanno portando studiosi e gente comune a mettere in discussione il modello urbano.
Perché non tentare il processo inverso? Rallentare i ritmi, scegliere la parsimonia e la qualità, migrando dalla città in campagna?
A scatenare l'attrazione verso la vita rurale si aggiunge il fatto che oggi la campagna non è più quella di 50 anni fa e può offrire ospedali, cinema, teatri, centri commerciali, scuole e corsi di ogni tipo nel raggio di pochi chilometri. Grazie a Internet, poi, si può lavorare restando sempre connessi con il mondo intero.
Benefica per la salute
Ma la forza segreta della vita in campagna ha radici molto più profonde. Il padre dell'etologia Konrad Lorenz, nel suo libro “Il declino dell'uomo”, le chiamava “armonie della natura”. Si tratta di quell'insieme di forme naturali che soddisfano il nostro senso estetico e con cui entriamo in una relazione empatica. Per i ricercatori è la biofilia, ovvero la predisposizione innata a trarre beneficio emotivo dall'ambiente naturale. E potrebbe essere la chiave di volta per migliorare davvero la qualità della nostra vita. Non solo. Uno studio apparso recentemente su Nature, realizzato dall'Istituto centrale di salute psichica dell'Università di Mannheim, rileva che chi vive in campagna ha il 40% di probabilità in meno di soffrire di disturbi dell'umore (come la depressione) e il 20% di probabilità in meno di avere attacchi di panico rispetto a chi risiede in città. Anche patologie psichiatriche serie come la schizofrenia si presentano con un'incidenza dimezzata. Non basta. Pressione arteriosa e livelli di cortisolo, l'ormone dello stress, sono più bassi fra i non urbanizzati.
In queste persone, monitorate con la risonanza magnetica, è molto meno attiva l'area cerebrale dell'amigdala, il centro biologico della paura. Anche la corteccia cingolata anteriore, pure deputata alle condizioni di stress e di allarme, si è mostrata più attiva nei soggetti che hanno trascorso l'infanzia in città. Secondo Daniel Kennedy, un ricercatore del Mit di Boston che ha commentato su Nature la ricerca, “proprio questo circuito cerebrale disturbato risulta alla base di alcune malattie mentali”.
Biofili nati
La parola chiave è: adattamento. Tutti gli esseri umani nascono con la predisposizione a vivere in piccoli villaggi, a contatto con la natura. Sono, cioè, intrinsecamente “biofili”. L'educazione e l'esperienza nel corso della vita possono più o meno accentuare questa predisposizione genetica.
La teoria della biofilia fu lanciata nel 1984 dal noto naturalista Edward O. Wilson. Si basa sul fatto che l'uomo si è evoluto in decine di migliaia di anni come cacciatore e raccoglitore, in una relazione intima con flora e fauna: dovendo dipendere in tutto dalla natura, ne conosceva i molteplici aspetti.
Ma era anche in grado di provare emozioni importanti per la salvaguardia e la qualità della sua esistenza. Nella preistoria le armonie della natura rigeneravano emozionalmente l'uomo che doveva restare vigile per schivare pericoli e procurarsi il cibo.
“L'Enciclopedia dei cacciatori raccoglitori”, edita dall'Università di Cambridge – dedicata a tribù di cacciatori ancora esistenti ed elaborata con il contributo degli antropologi più impegnati sul campo -, spiega che in questi gruppi sono praticamente assenti i problemi psicologici.
Riattiva la mente
Ma la biofilia fa sentire i suoi effetti anche nella vita moderna, come dimostra il test in corso all'Università della Valle d'Aosta. “Abbiamo visto che i bambini esposti ad ambienti naturali rigenerano e aumentano la loro capacità di attenzione”, spiega Giuseppe Barbiero del Dipartimento di psicologia e scienza sociali. Gli esperimenti vengono condotti su bambini fino a 11 anni. I più piccoli. I più piccoli, a livello di asilo nido, mostrano una irrefrenabile attrazione verso gli animali, mentre sono piuttosto indifferenti verso ciò che è inanimato. Gli alunni delle elementari vengono sottoposti a test sull'attenzione. “Per esempio” continua il ricercatore “devono indicare una sequenza stabilita di tre lettere in mezzo a tante altre sequenze scritte a caso.
Dalla individuazione della sequenza esatta, ogni bambino ottiene un punteggio. Si chiede di eseguire il test dopo un periodo in cui la loro attenzione diretta – che in tutti, anche negli adulti, dopo un po' tende a scaricarsi – si è rigenerata attraverso l'esposizione a un ambiente naturale. I bambini dimostrano una sorta di fascinazione per il paesaggio, entrano in empatia con il verde degli animali. La ricarica avviene quindi più velocemente e le performance dell'attenzione sono superiori rispetto al gruppo di controllo”. Anche uno studio, condotto dall'Università dell'Illinois nel 2011 su 400 bambini affetti da deficit dell'attenzione per iperattività (ADHD), ha rivelato che quelli che giocavano in spazi verdi avevano una netta riduzione dei sintomi rispetto a quelli che lo facevano in luoghi chiusi.
Fa vedere più lontano
Un altro studio, presentato lo stesso anno dagli oftalmologi della Cambridge University, su un campione di 10 mila fra adolescenti e bambini, ha dimostrato che passare alcune ore alla settimana all'aria aperta riduce l'incidenza della miopia, dati gli effetti della luce del Sole e della visione in lontananza o a varie profondità di campo in parchi e ambienti naturali.
E ancora, sempre sui bambini: secondo i pediatri della rivista americana Pediatric and adolescent health care, una vita attiva e a contatto con la natura aiuta a prevenire l'obesità e il diabete.
Un articolo comparso su Scientific American lo scorso anno ha invece concluso che la presenza di giardini strutturati con piante, fiori e uccelli negli ospedali degli Stati Uniti si traduce in un miglioramento delle condizioni psicofisiche dei pazienti.
Braccia rubate all'università
Riesporsi oggi alle suggestioni della biofilia, migrando in campagna, potrebbe significare ritrovare non solo la salute ma anche il senso e la qualità della vita. Il rispetto dei ritmi circadiani (che scandiscono il sonno, la veglia e le attività quotidiane in base alla durata stagionale della luce), le lunghe pause, un lavoro più attivo e manuale, vedere crescere i prodotti dell'orto, dieta e aria più sane, guardare e sentire intorno a noi con curiosità... sono tutte cose che non possono fare altro che bene. Questa consapevolezza, unita a una situazione economica che spinge gli italiani a rivedere le proprie priorità di vita, sta producendo un fenomeno di ritorno alla campagna di un certo rilievo. Perché non soltanto è aumentato il numero di cittadini che compra casa nel borgo rurale, ma per la prima volta in dieci anni sono cresciuti i giovani agricoltori, con un incremento del 4,2 per cento nel numero di imprese individuali.
E in palese controtendenza sui dati occupazionali nazionali, sono cresciute anche le assunzioni di lavoratori dipendenti con un incremento record del 10,1 per cento rispetto all'anno precedente. Se aggiungiamo che tra i “capitani” dell'azienda nel mondo agricolo in dieci anni è raddoppiato il numero dei laureati, l'immagine del nuovo lavoratore rurale si allontana, e molto anche, da quella trasmessaci dalle generazioni precedenti. Forse perché mai, come in questo preciso momento storico, la campagna per molti è una scelta. Di più: un sogno. Che racchiude la voglia di tornare a un'economia reale, di sporcarsi le mani, di vivere nella natura.
“Ci sono molti casi di persone che lasciano la città per la campagna, professionisti con la vita a metà: si dedicano alla terra, ma fanno anche un altro lavoro per mantenersi. Nei periodi di crisi il ritorno alla terra è fisiologico” spiega il sociologo Corrado Barberis, studioso delle trasformazioni delle campagne italiane e curatore del volume “La rivincita delle campagna” (Donzelli editore). “Una delle ragioni è che oggi la terra è più facile da coltivare e non richiede enormi sforzi fisici, ai quali comunque la gente di città non è abituata. Non a caso una delle attività più gettonate dai giovani agricoltori (rappresentano il 42% dei professionisti) è l'apicoltura, che è poco faticosa”.
Lavorare stanca, però...
In ogni caso proprio la fatica è in qualche modo fonte di benessere. Secondo gli studi della psicologa americana Kelly Lambert, del Randolph-Macon Collage di Ashland (Virginia), le ricompense interiori legate al lavoro manuale aumentano il benessere mentale, e viceversa. Utilizzare cibi precotti invece di coltivare e cucinarli, per esempio, non piace al nostro cervello. Mentre fare la manutenzione della casa, o curare un orto o un giardino aiuta a riacquistare manualità e dare alla nostra mente la sua ricompensa: il cervello è infatti programmato per provare un profondo senso di soddisfazione dopo la fatica.
Ma c'è dell'altro, spiega Barberis: “i cittadini si trasferiscono volentieri nel borgo rurale attratti dall'ambiente, dai costi più bassi e anche da un tessuto sociale che spinge a fare amicizia. Per essere più chiari: nel paesino non puoi ignorare i tuoi vicini se hai intenzione di trasferirti lì, per cui dovrai sforzarti di tessere legami. Questo ritorno sta portando a una maggiore comprensione del lavoro della terra e tutta la nostra cultura si sta nuovamente 'agricolizzando'”.
Che si parta da zero o che si investa nell'azienda di famiglia, che si sia giovani 25enni laureati o 40enni delusi dal “lavoro sicuro”, i nuovi contadini hanno una, anzi due marce in più rispetto agli agricoltori di ieri: sono più “formati” (in qualsiasi campo, non solo agrario) e hanno la Rete. Via Internet di informano, chiedono aiuto, consulenze, consigli, commercializzano, si promuovono.