Vorrei svolgere alcune riflessioni “ferragostane” sul tema dell’integrazione. Ferragostane, ho detto, perché assomiglieranno un po’ al giorno di Ferragosto da poco trascorso: pioggia malinconica e qualche sporadico, timido raggio di sole.
Una storia d’integrazione l’ha per esempio raccontata martedì scorso la Tageszeitung. Pavol Scholtz, un bracciante agricolo slovacco che lavora qualche mese all’anno raccogliendo mele, adesso suona il clarinetto nella banda musicale di Tscherms (Cermes):“Mi hanno preso come musicista, non come straniero”. Una fotografia lo ritraeva vestito con il costume tradizionale – costume prestatogli dal padre del suo datore di lavoro – e un’espressione di legittima fierezza. Commento finale di Roland Pernthaler, sindaco del paese, anch’esso musicista: “Pavol è un membro della nostra banda ed è pienamente accettato. La Svp predica sempre che dobbiamo integrare i lavoratori stagionali (Gastarbeiter) attraverso le associazioni. Noi lo facciamo già”. Come suggello per questa riuscitissima integrazione ecco che Pavol è stato persino ribattezzato da tutti Paul. Complimenti.
La storia potrebbe apparire senz’altro edificante, ma qualcosa non torna. Siamo sicuri che la parabola di Pavol/Paul rappresenti non solo un caso particolare d’integrazione riuscita, ma anche un modello, anzi il modello al quale dobbiamo tendere? Vorrei avanzare almeno due dubbi al riguardo.
Il primo concerne la confusione, che spesso si fa, tra integrazione e assimilazione. Integrare significa consentire a chi si integra anche di preservare alcuni tratti della propria identità, lasciandoli sussistere nella loro peculiarità se non addirittura facendoli filtrare positivamente nel nuovo contesto circostante, contribuendo così a modificarlo in minima parte. L’assimilazione invece non lo consente e suggerisce al contrario l’idea che sia proprio la riduzione di ogni possibile scarto tra l’identità di partenza e quella di arrivo, ovviamente facendo scomparire del tutto la prima e cementando ancora di più la seconda, a determinare la bontà del processo d’integrazione.
Il secondo dubbio riguarda la focalizzazione dell’integrazione su aspetti tutto sommato marginali e per così dire a tempo determinato. Vanno bene le bande musicali, i costumi tradizionali e le associazioni. Una vera e propria integrazione si potrà avere però soltanto quando agli stranieri verranno garantiti tutti quei diritti fondamentali – feriali, più che festivi – in grado di riscattarli dal ruolo di cittadini di serie B. E in questo caso sì che alla fine non dovremmo avere residui o ammettere differenze di sorta.
Il Corriere dell’Alto Adige, 18 agosto 2011