Oggi sembra incredibile ricordare che appena venti anni fa ci sia stata una guerra tanto feroce in un paese confinante con l’Italia. Eppure, durante il conflitto interno che ha interessato la Jugoslavia abbiamo visto perpetrare un altro genocidio che nessuno avrebbe mai pensato accadere in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale.
La guerra civile Jugoslava, ispirata al principio di “pulizia etnica”, è stata una delle più sanguinose e disumane; milioni di persone sono state uccise e orrendamente mutilate, milioni di donne sono state stuprate e violentate, migliaia sono stati deportati in campi di concentramento e costretti ad abbandonare le loro case e le loro proprietà.
Nel 1918 dopo la caduta dei grandi imperi era nato il Regno degli sloveni, croati e serbi, successivamente chiamato Jugoslavia. La Jugoslavia, era uno stato costituito da sei repubbliche e due province autonome, dove si parlavano almeno sette lingue ed erano in uso due alfabeti, latino e cirillico. Convivevano fedeli di quattro religioni.
Durante la seconda guerra mondiale nell’aprile del 1941 la Jugoslavia fu invasa da Germania e Italia nel giro di soli 11 giorni. In Croazia e in Bosnia venne costituito un governo fantoccio guidato dagli ustascia, i fascisti locali, che avevano come obiettivo quello di creare una Croazia di soli Croati. A questo scopo gli Ustascia avviarono uno sterminio sistematico dei serbi. I serbi subirono abusi e violenze di ogni tipo, furono uccise migliaia e migliaia di persone, altre migliaia espulse o costrette a convertirsi al cattolicesimo.
Il governo croato, nato durante la guerra, di fatto non ammetterà mai i massacri interetnici avvenuti durante la seconda guerra mondiale verso i Serbi. Forse è proprio questa una delle cause che porterà alla guerra dei Balcani.
Dal 1945 in poi serbi, croati e musulmani vivono in uno stato di relativa pace sotto il pugno di ferro del regime comunista di Tito, che stronca sul nascere ogni possibile tensione etnica. Ma alla morte di Tito, in un contesto di crescente crisi economica e stallo istituzionale, crescono i contrasti interni fra le varie componenti della federazione e gli antichi risentimenti sono tutt’altro che sopiti. La fine della guerra fredda e il crollo dei regimi comunisti avevano portato, in Jugoslavia, all’emergere di leadership nazionaliste.
I Balcani vengono così travolti da un nazionalismo estremo che i leader dei vari gruppi etnici alimentano con il doloroso ricordo del passato, dei massacri dei secoli precedenti. Senza nessuna disponibilità a negoziare soluzioni per dividere il paese, i nazionalisti vogliono creare stati omogenei sulle spoglie di una popolazione composita dal punto di vista etnico. Di lì a poco comincia la disgregazione della Jugoslavia; una dopo l’altra, dal 1991 Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia, che male avevano sopportato il predominio serbo, dichiarano la loro indipendenza.
In Slovenia, repubblica etnicamente omogenea, gli scontri con l’esercito federale durano alcuni giorni. In Croazia invece ha inizio una lunga guerra che continuerà fino all’estate del 1995. Qui la consistente minoranza serba che si era opposta con le armi alla secessione dalla Jugoslavia alla fine è costretta alla fuga.
Terminata in Croazia, la guerra si sposta in Bosnia-Erzegivina dove un Referendum sull’indipendenza nel 1992 darà inizio alla spaccatura della repubblica più multietnica della federazione. La comunità musulmana e croata votano a favore della secessione mentre i serbo-bosniaci boicottano la consultazione. In quella regione relativamente piccola, scoppia la guerra più cruenta della dissoluzione Jugoslava che provoca circa cento mila vittime, oltre due milioni di rifugiati e sfollati e un nuovo genocidio in Europa. L’assedio di Sarajevo da parte dell’esercito serbo diventerà il simbolo di una guerra atroce e assurda nella quale il maggior numero di vittime si contò fra i civili. Ogni mezzo fu ritenuto valido: violenze fisiche sulle persone, torture, distruzione di villaggi, espulsione oltre confine e internamento in campi di concentramento.
Questi massacri erano rivolti per lo più contro le minoranze croate o musulmane come a Srebenica, lì migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi l’11 luglio del ‘95 da parte delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic, che fu poi arrestato per crimini contro l’umanità. Nel novembre dello stessi ‘95 vengono firmati gli accordi di pace che pongono fine alla guerra in Bosnia ma non risolvono i problemi del paese che viene posto sotto la tutela internazionale per assicurarne la ricostruzione e facilitare il ritorno dei profughi. Il compromesso garantiva l’integrità territoriale della Bosnia ma non poteva assolutamente cancellare rancori e desideri di vendetta provocati da una guerra intestina che lasciava dentro di sé decine di migliaia di morti e crudeltà di ogni genere. La Bosnia fu così divisa in due parti una amministrata dai serbi l’altra dai musulmani.
Nel frattempo in Kosovo provincia autonoma della Serbia con una maggioranza albanese, la comunità albanese rivendica una propria autonomia e indipendenza cancellata dal presidente serbo Milovic nel 1999 con violente oppressioni.
Così l’aumento di violenze ai danni della comunità albanese del Kosovo provoca il coinvolgimento della comunità internazionale. Dopo alcuni tentativi di soluzioni diplomatiche nel 1999 la Nato scatena una campagna di bombardamenti su Serbia, Montenegro e Kosovo. L’intervento internazionale aumenta il numero di morti e distruzioni ma anche il ritiro dell’esercito Jugoslavo dal territorio Kosovaro, dove verrà successivamente creato un protettorato internazionale.
La guerra in Kosovo destabilizza la vicina repubblica di Macedonia indipendente dal 1992. Anche lì le rivendicazioni di maggiori diritti da parte della minoranza albanese sfociano nel 2001 in scontri armati. Dopo alcuni mesi di guerra la comunità internazionale spinge le parti a firmare degli accordi di pace, con qui si pone fine al conflitto. Ma ancora una volta l’esperienza della guerra lascia ferite aperte ed un contesto politico instabile. Nel 2006 anche Serbia e Montenegro le ultime due repubbliche della Jugoslavia rimaste unite fino a quel momento si separano. Da ultimo il 17 febbraio 2008 il Kosovo si dichiara indipendente dalla Serbia.
Quindici anni di conflitti hanno duramente colpito la natura multietnica della regione provocato la morte di almeno 150.000 morti, spinto alla fuga milioni di profughi e comportato enorme distruzioni. Una guerra di tutti contro tutti, che coinvolse sia le etnie che le fedi religiose. In quei posti non vi è famiglia senza morti e vittime. Si tratta di un complesso concatenato di cause, come sempre poi avviene nella storia.
Ma questi sono i frutti della guerra e dell’odio, quando si scatenano le vendette purtroppo ci vanno di mezzo quasi sempre chi non c’entra nulla. In Jugoslavia dapprima i serbi avevano subito massacri e persecuzioni e poi a loro volta, grazie alle propagande di odio, ne perpetrano tanti altri. In Jugoslavia i serbi non accettavano di essere una minoranza, seppur egemone, negli altri stati. Milosovic diceva: “dovunque vi è un serbo quella è Serbia”
Ogni guerra lascia una lunga ombra dietro di sé soprattutto le guerre fra i popoli che condividono lo stesso territorio. Nel caso di Ratko Mlavic, quello che fu il capo dell’esercito serbo, per esempio entrambi i suoi genitori furono massacrati dagli Ustascia Croati, quando lui aveva solo due anni. I rischi sono ancora maggiori quando dalla fine di un conflitto sono passati solo dieci o vent’anni. Una nuova generazione di giovani cresce alimentandosi di racconti pieni di odio e si sentono in dovere di vendicare ciò che è successo. E questo purtroppo va avanti per generazioni.
Slobodan Milosevic, il leader nazionalista serbo, rinfocola antichi sentimenti antislamici ricordando ai serbi una battaglia per assurdo avvenuta seicento anni prima, un odio tramandato in modo distorto ma sufficiente perché una persona sia spinta che niente di simile accada nel futuro. Molti serbi erano convinti che i musulmani avessero massacrato bambini cristiani per il semplice piacere di farlo, questo diceva la propaganda. Naturalmente questa leggenda non aveva nessun riscontro nella realtà così come non esisteva fondamento a molte delle paure che i musulmani avevano riguardo ai serbi. Ma queste fantasie su improbabili massacri ebbero grande diffusione prima degli inizi dei veri massacri, era un modo per prepararli e giustificarli.
Ma quel che più indigna è l’uso dell’arma dello stupro durante la guerra per distruggere le minoranze musulmane. I serbi e i bosniaci conoscevano molto bene le loro vittime, i loro valori e la loro cultura. Questo perché molto spesso erano stati vicini di casa con cui, durante gli anni di Tito, avevano vissuto in pace. Colpendo le loro donne gettavano sulla loro famiglia la vergogna e il disonore.
Purtroppo la violenza sessuale verso le donne durante un conflitto armato era una pratica diffusa, considerata per molto tempo come un inevitabile atto di guerra, un po’ come il saccheggio e le razzie. Ma nella guerra dei Balcani e in particolare in Bosnia, la violenza sessuale divenne a tutti gli effetti una tattica militare pianificata e coordinata. Gli stessi soldati serbo bosniaci di quello che facevano alle donne bosgnacche (bosniaco musulmane). In totale si stima che nei tre anni di conflitto in Bosnia siano state violentate dalle venti mila alle cinquanta mila donne. Le ragazze venivano usate come oggetti violentate in gruppo e rinchiuse nei cosiddetti campi di stupro, dove diventavano schiave sessuali o domestiche. Oppure venivano vendute come schiave nei bordelli, dove tra l’altro vi si recavano anche i soldati dell’Onu che erano in Bosnia per la missione di peacekeeping. Non solo ma venivano anche usate come scudi umani durante le operazioni militari. Tutto questo accadeva in Europa a ridosso del ventunesimo secolo.
Fra le tattiche di guerra dei militari serbo bosniaci c’era la studiata intenzione di mettere incinta le donne bosgnacche, tenerle imprigionate finchè la gravidanza non potesse essere interrotta e solo dopo rimetterle in libertà. In una società come questa nella quale il nascituro prende l’etnia del padre, la strategia era quella di far partorire a donne musulmane un figlio serbo, per impiantare il loro seme nella popolazione nemica.
Le conseguenze sono ancora impossibili da superare, tante donne sono morte per le violenza o per l’aver cercato di abortire in avanzato stato di gravidanza. Altre si sono suicidate o sono impazzite. Tante altre hanno abbandonato i figli concepiti da un assassino o hanno accolto l’appello di papa Giovanni Paolo II che chiedeva alle vittime di stupro di non abortire e di” trasformare l’atto di violenza in atto d’amore”. In tutti i casi sicuramente la maternità è stata vissuta come un dramma.
Sulle ceneri della Jugoslavia, sulle violenze e sui massacri sono stati creati sette nuovi stati di questi solo la Slovenia è membro dell’unione Europea, gli altri attraversano ancora la difficile “transizione” alla democrazia. Alcune nelle loro fragilità economiche ed istituzionali sono tuttora sotto tutela internazionale. In questi stati della ex Jugoslavia, che vorrebbero chiudere questo conflitto in un “dimenticatoio”, queste donne sono invalide del tutto e non vengono tutelate o aiutate perché sono come un “ostacolo”, un problema per dei paesi che la guerra la vogliono dimenticare.
È questa guerra che introduce un uso comune di “pulizia etnica”. L’idea è semplice, gli esecutori dei massacri ritengono che la propria terra vada ripulita da tutti coloro che in qualche modo sono “estranei” e “diversi per cultura o etnia, dimentichi che tutte le culture sono multiculturali, prodotto di continui scambi secolari.
E questo è tanto più vero nei Balcani dove la cultura è in fondo la stessa, come lo è la lingua, pur declinata a varianti locali. Eppure su questa apparente divisione si è costruita una guerra, un conflitto ancora vivo e recente.
Written by Amani Salama