Magazine Diario personale

La Lavannara

Da Antonio

La classica lavandaia scendeva il lunedì dalle colline del Vomero, di Posillipo, di Antignano, dell’Arenella. Quella più povera munita di un’ampia sporta, quella fortunata accompagnata da un asino. La biancheria raccolta per casa – la “mappata” – veniva insaponata, lavata in una tinozza o in un torrente, asciugata e restituita candida e profumata il venerdì.
Fili di cotone di vario colore evitavano di confondere i committenti.
Alcune “lavannare” lavoravano per una “maestra” che le riuniva in una specie di cooperativa; altre operavano a domicilio, alla giornata, e venivano dette “giornaliste”.
Achille De Lauzières, nel De Boucard, descriveva l’abbigliamento tipico – ma già in disuso – di una “lavannara”: «corsaletto di seta rossa o cileste, gonna di colore opposto a quello del giubbetto, e senaletto bianco: al piede aveva zoccoli guarniti di nodi di nastri: al collo catenelle d’oro o piuttosto laccettini di Venezia: alle orecchie una specie di pendenti…»
Adoratrici del sole – ricordate l’antichissimo canto? «Jesce sole, jesce sole, / non te fa cchiù sospirà» – le “lavannare” erano tradizionalmente belle, bellissime. Un esempio di rime sospirose in una vecchia canzonetta: «Lavannarella mia, / si’ bella nfra le belle, / tu si’ tra le nennelle / no sciore de bontà». Più carnale l’ispirazione di Raffaele Viviani in “Lavannaré”: «…sti braccia dint’ ‘a scumma d’ ‘o ssapone / me fanno cunzumà d’ ‘a passione».
L’opera della lavandaia veniva completata dalla “stiratrice”, specializzata in camice da uomo. Due versi di Ferdinando Russo:
Vicino à casa mia, ‘ncopp’ ‘a Nfrascata,
tre ffigliole faticano a stirà.



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