di Marcel Aymé
Intorno a Céline si è creata una leggenda nera, della quale è in parte responsabile, non avendo fatto nulla per distruggerla, e anzi, l’ha mantenuta. È quella di un uomo violento, astioso, implacabile nei suoi odi come nelle sue antipatie, avido di denaro, nemico del suo paese, oltre a quella di un demolitore anarchico e di un pessimista contento di esserlo. Benché le apparenze talvolta confermino questa leggenda, essa è quanto di più lontano possa esserci dalla realtà. Certamente, Céline non era persona accomodante, o che dimenticasse facilmente i torti che gli erano stati fatti. Il perdono del male, il perdono delle offese, non aveva per lui alcun senso. Poteva, nel corso della vita, giungere a non tenerne conto, ma non le dimenticava. Il perdono era ai suoi occhi un atto, se non negativo, quantomeno inutile, che non impediva al male di rimanere, né al nemico di restare pericoloso. Di fronte agli esseri e agli avvenimenti, aveva delle reazioni virili, spontanee, nulla sacrificando al catechismo, e considerando il difendersi come uno dei primi doveri dell’uomo. Ai suoi occhi, questo era un obbligo che coinvolgeva non solo la fierezza dell’individuo, ma la sua salute fisica e morale, poiché chi non ha dei buoni riflessi difensivi contro i suoi nemici, come saprà difendersi dalla società, e innanzitutto da se stesso? Nella vita come nella sua opera, ovvero, Céline ha assiduamente denunciato come il nemico più temibile dell’uomo sia “se stesso”. Per ciò che riguarda il suo giudizio, le sue opinioni letterarie, estetiche, politiche etc. (a dire il vero considerava la politica una materia fluttuante, bassamente organica, un assoggettamento della società ai propri stessi rifiuti, ed essa non lo interessava che mediocremente), mostrava egualmente un grande vigore combattivo, e non era l’uomo da arrivare a compromessi per far piacere all’interlocutore, anche se quest’ultimo fosse un amico. Questa spiccata dirittura morale favoriva in lui una generosità di spirito che gli esegeti non hanno ancora messo abbastanza in luce nella sua opera, ma che si è manifestata sempre lungo il corso della sua vita. Amava l’amicizia, e ha sempre dimostrato una rara fedeltà nei suoi affetti. Durante tutto l’esercizio della sua professione di medico, che ha avuto sulla sua opera letteraria una così grande influenza, ha dimostrato una devozione e un disinteresse ammirevole, sino alla fine della sua vita. Nei suoi ultimi anni, aveva, in effetti, aperto nella sua casa di Meudon un gabinetto medico, non tanto per lucro, ma per riprendere con la medicina un contatto che non fu solamente teorico. Si recava da lui qualche cliente povero, che non si decise mai a far pagare, e per i quali comprava di tasca sua le medicine. No, Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo. Si è detto molto, anche da vivo e perfino tra i suoi ammiratori, che era avaro. Questo è un errore che egli denunciò giustamente per tutta la vita. Alla fine dei suoi studi medici, sposò la figlia unica di un medico facoltoso. Normalmente, un tale matrimonio avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una carriera facile e di un’attività redditizia, ma il denaro lo annoiava; il denaro gli sembrava una tara. Divorzierà, per condurre a modo suo un’esistenza bisognosa. Procacciarsi una clientela non gli interessava, poiché quest’uomo, che doveva dimostrarsi tirannico con i suoi editori, era incapace di incassare i soldi dei consulti medici, soprattutto se si trattava di quelli della povera gente. Preferiva di più l’essere il medico di un dispensario di periferia, che pagava i servizi prestati con un salario modesto, del resto sufficiente ai bisogni della sua esistenza disciplinata. Niente cambiò nelle sue abitudini di vita dopo che i suoi libri a grande tiratura gli portarono una fortuna, che alla vigilia della guerra, con una leggerezza che stupisce, affiderà a qualcuno che conosceva pochissimo, e del quale nulla doveva ispirare fiducia, con la missione di trafugare questo capitale in un paese straniero. Più tardi, quando credette di rientrare in possesso dei suoi beni, dovette costatare che questa riserva si era evaporata, e fu amareggiato enormemente di scoprirsi egli stesso in flagrante delitto d’ingenuità. Céline non aveva il senso del denaro, o meglio, non l’aveva che al livello delle necessità quotidiane. Durante i dieci ultimi anni, mentre sentiva declinare la sua salute, e credeva di lasciare sua moglie senza risorse, i suoi familiari lo sentirono spesso lamentarsi del prezzo delle derrate, affermando come i soldi fossero la sua unica preoccupazione, la sola ma quella verso la quale tendevano tutti i suoi sforzi, ed è vero, poiché nelle spese ordinarie ne teneva conto. Ma quando toccava alle somme importanti, allora le dissipava con acquisti costosi e futili, con quella malaccorta impazienza delle persone povere che vincono alla lotteria. In realtà, il denaro superfluo, quello che non serve ai bisogni basilari della vita, gli ha sempre dato fastidio.
Io temo che i suoi biografi e commentatori, almeno nell’immediato, l’immaginino e lo giudichino attraverso l’autoritratto che, attraverso le sue interviste e le conversazioni con degli scrittori durante i cinque o sei anni precedenti la sua morte, ha voluto dare di lui, e che non lo rispecchia giustamente.
A causa dell’ostilità sistematica e delle calunnie che aveva subito da parte di una stampa timorosa e venale, aveva poca stima per i giornalisti francesi. Era il suo divertimento farli smarrire in un labirinto di espressioni eccessive o contraddittorie, dando solo un riflesso deformato e derisorio di se stesso. Sapendo di essere in Francia il solo grande scrittore del suo tempo, era per lui un divertimento vedersi trattato dai giornalisti a volte con una divertita condiscendenza, a volte con un altezzoso disprezzo. Sì, Céline si è prestato a questa scioccante opposizione, ma non così amara da non discernervi già una vendetta postuma, e si è pressoché costantemente sforzato di provvedervi. Credo che sarebbe stato soddisfatto se avesse potuto, dal fondo della sua tomba, essere testimone del gran rumorio meravigliato menato dalla stampa francese intorno al nome di Hemingway, che morì il suo stesso giorno; di questo grande affannarsi di redazioni attorno a uno scrittore americano pregevole certo, ma senza genio − probabilmente più grande come cacciatore che come scrittore − e se avesse potuto leggere, allo stesso tempo, la stessa stampa francese che dava il frettoloso annuncio della morte di Céline.
Il suo crollo psicologico degli ultimi anni, e il suo aspetto trascurato, hanno altresì contribuito ad influenzare il giudizio di chi lo ha incontrato accidentalmente. In seguito ad una trapanazione necessaria dopo una ferita alla testa nel 1914, trapanazione che riferiva come particolarmente mal eseguita, aveva sempre sofferto di violente emicranie [in realtà, poiché non sono ancora stati trovati documenti medici attestanti questa operazione alla testa, le emicranie di Céline possono derivare da altre cause. D’altra parte, non si può escludere a priori una concussione derivante dall’esplosione dello stesso proiettile la cui scheggia offese il suo arto, fermo restando che la trapanazione sia un’iperbole biografica di Céline, NdC], ma dopo la sua scarcerazione dalle prigioni della Danimarca, dove il suo organismo si era indebolito, un dolore acuto e continuo non gli lasciò tregua, né di giorno né di notte. Negli anni a venire, dormì meno di due ore per notte, assopendosi male e a tratti, senza mai cessare completamente di soffrire. Camminava con difficoltà, e gli capitava, in seguito a degli attacchi di vertigine, di cadere, senza potersi alzare da solo. Un’altra ferita, anch’essa dell’altra guerra – le schegge di un proiettile gli avevano reciso i nervi di un braccio, e lasciato una mano pressoché inerte − si era messa a farlo soffrire. Le poche forze che gli restavano, le concentrava per scrivere, preoccupandosi poco del suo aspetto esteriore e dell’impressione che faceva agli intervistatori. Il giorno della sua morte, tremante, e, per una volta, gemente di dolore, la testa in fiamme, ma lucido, andò come tutti i giorni a sedersi al suo tavolo di lavoro, e si mise a scrivere. Resoconti di ogni sorta hanno dato al pubblico un resoconto distorto di questa energia sovrumana, a volte pietosa e tanto ingannevole; ed è questo quadro distorto e menzognero che orienta l’idea che le giovani generazioni si fanno dell’uomo che fu Céline.
Recentemente, ho letto nella Nouvelle Revue française uno studio di Jean-Pierre Richard intitolato La Nausée de Céline. È un tentativo di psicanalisi dell’uomo attraverso la sua opera e le sue interviste. L’autore è tra chi ha compreso meglio l’opera céliniana, e apprezzato l’ampiezza e la forza del suo genio poetico. Come dire che se egli nutriva un pregiudizio verso Céline, questo sarebbe piuttosto un pregiudizio favorevole. E la sua idea di nausea corrisponde abbastanza bene all’immensa stanchezza che, al di fuori del suo lavoro, Céline, estenuato, incessantemente occupato a superare le sue sofferenze, lascia apparire nei suoi propositi, nel suo atteggiamento, nelle foto dei suoi ultimi anni di vita. Ma, seppur seducente sul piano della comprensione del personaggio, la spiegazione non tiene per chi ha conosciuto Céline prima della guerra. Quest’uomo con il fisico e le spalle da corazziere, dal viso di una bellezza virile, illuminato dalla fiamma gioiosa e frizzante dei suoi occhi chiari, apparteneva ad una razza di scrittori poco concepibile agli intellettuali delle giovani generazioni. Dire che era, fisicamente e moralmente, una forza della natura è poco, poiché la sua forza organizzata era quella di un uomo che si era dato uno stretto autocontrollo, e che viveva in una stretta disciplina, forgiata da lui stesso. Non gli ho conosciuto che una debolezza, la collera, alla quale arrivava ad abbandonarsi. Nulla in quest’uomo, nulla nella sua conversazione, piena di salute, di gaiezza e di brio, brillante come le migliori pagine del Voyage, nulla può veramente richiamare l’idea della nausea. La natura aveva fatto di lui un lottatore, dandogli un’esuberanza di forza, volontà e potenza su se stesso, e la sua opera letteraria è quella di un lottatore. Prendiamo atto che in lui, l’incontro tra il poeta e il medico è stato di importanza capitale, e ha diretto la sua opera. […] La pratica della medicina e la visione delle migliaia di miserie umane in un dispensario di periferia, hanno ravvivato, o quantomeno affinato in Céline un senso, probabilmente innato; il senso del peccato, ma non contro la divinità, ma contro l’uomo. Le sue più grandi collere, le ho viste scatenarsi contro tutto ciò che riteneva conducente all’abbruttirsi dell’uomo, all’abbandono di se stesso: l’alcol, gli stupefacenti, l’abbuffarsi di cibo scadente, la sessualità sfrenata, il lusso, la miseria, le false barriere, la religione (ai suoi occhi, sembrava che i peccati contro la Chiesa, avvallassero i peccati contro l’uomo), le ipocrisie sociali e mondane che, sotto una copertura d’onestà, favorivano lo scatenarsi delle cattive intenzioni. No, non era la nausea che invadeva Céline allo spettacolo di una società accanita a distruggersi in ciascuno dei suoi individui. Era un odio robusto, potente l’odio di un nemico contro il quale non si sentiva totalmente disarmato per nulla, lui che aveva avuto la volontà di disciplinarsi e che pensava di fare un’opera meritoria nello spingere il naso di chiunque nella sua propria lordura. Anche scrivendo il Bagattelles, all’epoca pensava in buona fede di intraprendere un combattimento nello stesso senso. Jean-Pierre Richard, nel suo studio, spiega questa crisi d’antisemitismo avanzando l’ipotesi che Céline, non avendo il coraggio d’andare in fondo al suo personaggio, e per la lassitudine della sua nausea, avesse “preso come obiettivo” i più scontati da colpire al mondo, prendendo la scappatoia di colpire gli ebrei, di farne degli esseri immondi, capaci di aver insozzato e indebolito la Francia. Una tale teoria implica che Céline si identificasse nell’Io dei suoi primi due romanzi, e ciò è l’opposto della realtà. Tra Céline a Bardamu, vi è perlomeno la stessa distanza che separa Flaubert dai Bovary. Osserviamo d’altra parte come nello stesso periodo nel quale Bagattelle era pubblicato, Céline lavorasse a un terzo romanzo, del quale è apparso solo il primo volume, dove si esprimeva in prima persona, e non vedo come tra questo terzo Io e quelli dei romanzi precedenti, ci sia frattura di sorta. Questo semplice fatto dimostra come bisogni cercare altrove le ragioni di questo fiero antisemitismo. Credo che l’antisemitismo non si dichiari all’improvviso come il morbillo, ma sia il frutto dell’educazione. Céline era nato in quell’ambiente di piccoli commercianti parigini, tutti più o meno antisemiti, poiché ai tempi dove erano impiegati di commercio, l’ebreo simboleggiava per loro il padrone, e in seguito, quando avviarono la loro attività, avevano trovato in lui un temibile concorrente, accusato di rovinare i piccoli negozianti con il concorso delle banche ebraiche. Non dimentichiamoci che sino all’Affaire Dreyfus, la classe operaia a Parigi era apertamente antisemita, in teoria in ricordo dei banchieri dell’Impero, in realtà per ragioni più vicine. Una volta che Jaurès ebbe preso posizione nell’Affaire, l’ostilità degli operai cessa di essere aperta, ma non cessa affatto, e se ancora oggi esiste a Parigi un fermento d’antisemitismo, esso esiste non nei quartieri-bene, ma nelle periferie e anche tra i piccoli commercianti della capitale. Si può ben immaginare che nel negozio del Passage Choiseul (già in declino), dove Céline Destouches, la madre del nostro futuro scrittore, vendeva i suoi pizzi, il bambino ha dovuto crescere nella familiarità di questo astio anti ebraico, infamante l’anti-Francia che minacciava il pane del focolare. E non fu una presa di coscienza letteraria, quella che ha risvegliato e fatto divampare tutto d’un tratto un antisemitismo latente nel suo cuore e nel suo spirito, ma una oltraggiosa ingiustizia subita nell’esercizio della sua professione di medico, e perpetrata a beneficio di un suo collega ebreo. Altri avrebbero incassato l’affronto, mordendo il freno, ma come ho detto, non si attacca chi si difende a fondo, con tutte le sue forze. Si giudicheranno come eccessivi gli sviluppi dati a questo affare personale. Ma una ingiustizia è mai unicamente un affare personale? In tutti i casi, una cosa è sicura, ossia che Céline, se non fosse stato provocato, colpito al cuore, non sarebbe mai partito in guerra contro gli ebrei. Non è quindi, secondo la parola di Jean-Pierre Richard, “un delirio di casualità” che lo ha fatto uscire dai gangheri. Qui, è l’ingiustizia che ha generato ingiustizia. E se la risposta è stata sproporzionata con l’ingiustizia iniziale, è che Céline, prono alla collera e al suo genio verbale, aveva precisamente perso questa facoltà di “essere obiettivo” che possedeva pienamente quando si trattava di Bardamu e delle sue altre creazioni. L’errore di identificare Céline con Bardamu conduce naturalmente a pensare che si è rinnegato, renié nel denunciare, a proposito degli ebrei, l’abbassamento della vitalità, del civismo, dell’intelligenza e del patriottismo francese. In realtà, se si rimettono Céline e Bardamu nelle prospettive proprie a ciascuno di loro, non vi è l’ombra di un rinnegamento. Non vi vediamo che una contraddizione, del resto ben anteriore alla crisi d’antisemitismo. Quest’uomo, che più di altri aveva misurato l’onore, la stupidità della guerra, e il pericolo permanente che costituiscono i nazionalismi surriscaldati, custodiva in lui vivace e suscettibile, un patriottismo da immagine di Epinal, inculcatogli dalla scuola comunale e che proseguì a casa con la lettura dei grandi quotidiani. Questa guerra mondiale che giudicava aberrante e odiosa, era fiero di averla combattuta con coraggio e distinzione, e non cessò mai di essere fiero delle gravi ferite ricevute al servizio del suo paese. Ed eccoci lontano da Bardamu! Ai nostri giorni, è difficile comprendere come questi sentimenti abbiano potuto coesistere con quei giudizi lucidi che ne erano la condanna. Io, che fui, come tutte le persone della mia età, impregnato dall’insegnamento sciovinista della scuola laica, e che sono cresciuto in una città dell’est, con il ricordo d’aver assistito, prima dell’altra guerra, a degli scoppi d’isteria popolare a proposito dell’Alsazia-Lorena e del nemico al di là del Reno, non mi stupisco di questa contraddizione. D’altra parte, quello che mi sembra sorprendente, è che si sia potuto accusare Céline di aver collaborato con i tedeschi e anche di essere per loro un amico e un ausiliario. È una favola corrente già al tempo dell’occupazione, e che dura ancor oggi. In realtà, Céline nutriva per i tedeschi una sfiducia e una ostilità che veniva da lontano. I suoi genitori, che ambivano per lui una carriera da grande commerciante, o da grande uomo d’affari, avevano voluto che apprendesse le lingue straniere, per le quali era sin d’allora notevolmente dotato. Verso i suoi dodici anni, lo mandarono a due riprese a passare le vacanze in una piccola città tedesca, in modo da fargli apprendere la lingua del nemico. Il giovane Destouches si scontrerà là allo sciovinismo odioso, irriducibile, dei bambini della sua età che si ostinavano a rendergli la vita insopportabile. Immagino facilmente che si sia difeso con vigore e non avrà tardato a trovare delle risorse nella lingua dei suoi avversari, ma cinquanta anni più tardi, parlava ancora di quei due soggiorni come di un incubo. La disfatta del 1940 fu per lui un’umiliazione e, a prescindere di qualunque cosa avesse detto prima, una sorpresa dolorosa. La sentì come un affronto che gli era stato inflitto personalmente, e non volle mai sentire altra spiegazione che il tradimento, la mancanza di cuore di un Esercito che si era lasciato catturare, diceva, senza combattere. Era un capitolo sul quale rifiutava sempre la discussione, e il suo rancore contro quell’Esercito là si sostenne sino alla fine della sua vita. Là, come anche nel suo antisemitismo, si trovava su un terreno passionale, dove non accettava di rendere obiettivamente il dibattito. Dal suo processo, dal quale era contumace, il commissario del governo si convinse che non vi era nulla nel suo dossier. Agli ammiratori timidi che una leggenda malevola e una critica troppo prudente tiene ancora a distanza, posso dire anch’io: “Non vi è nulla nel dossier di Céline” (1).
(1) Cahiers de l’Herne, 1981. Traduzione Andrea Lombardi.
Dal Blog Louis Ferdinande CélineFiled under: cultura, idee Tagged: libri