Anna Lombroso per il Simplicissimus
In un prolungamento torrido dell’estate Unioncamere annuncia un torrido autunno: se l’emorragia dei posti di lavoro registra un rallentamento, il saldo a fine 2011 per le imprese con almeno un dipendente (circa 1,5 milioni) mostra ancora il segno meno: 88mila i posti in uscita pari a un calo dell’occupazione dipendente dello 0,7%. Va peggio per il lavoro nelle piccole e medie imprese e particolarmente penalizzato sarà il Sud: nel 2010 il saldo negativo era stato di 178mila unità, -1,5%. Peggio ancora era andata nel 2009, anno clou della crisi: 213.000 i posti bruciati, pari a -1,9%. Per il settore industriale a fine 2011 è attesa una perdita di quasi 59mila unità (-1,2%); meglio i servizi che dovrebbero fermarsi a quota -29mila unità (-0,4%). Crollo invece per le imprese delle costruzioni (quasi 29mila posti in meno). Nei servizi, l’unico settore che arriva a perdere un punto percentuale è relativo agli alberghi e ristoranti, mentre i tassi di variazione degli altri comparti sono compresi tra il -0,7% (servizi alle imprese) e il -0,2% (commercio al dettaglio).
Affacciata alla finestra sul cortile sento un silenzio svogliato. Dove saranno tutti? Già a aprire un chiosco nell’isoletta caraibica? Una pizzeria a Cuba? Quando il premier e i suoi noncuranti ministri xenofobi parlavano di flussi epocali e piaghe bibliche sottovalutavano un risvolto inquietante della crisi: la crisi dell’emigrazione, il problema del lavoro in un occidente senza lavoro. Dove andranno a cercare fortuna i figli viziati nati dalla parte “giusta” di un mondo sempre più ingiusto, che credevano di aver vinto il premio della lotteria naturale? Si, come sarà il lavoro della crisi nella crisi del lavoro? E che ne sarà di quelli che credevano di essere i vincenti della globalizzazione, chiusi nell’enclave dell’egoismo, del profitto e dell’accumulazione, che hanno mantenuto in stato di servitù e sommersione interi territori e ora cercano di riguadagnare il vantaggio perduto e il privilegio compromesso?
Nuove povertà fanno irruzione e come al solito non ci sono avvisaglie di un’organizzazione degli svantaggiati vecchi e nuovi nella corsa globale. È possibile che vari segmenti di povertà e disperazione si muovano disordinatamente, ma incrociandosi più in Internet che sulla terra. La disintegrazione e la demoralizzazione, non solo come “malinconia” per la perdita di benessere ma come erosione di un ethos collettivo, fanno prevedere tremendi sviluppi. L’individualizzazione ad esempio. Eravamo abituati in tempi di conflitti sociali a pensare ai sindacati e fare conto sui partiti della sinistra. Ma questi entravano in campo quando molti individui contemporaneamente e per gli stessi motivi si accorgevano che era impossibile realizzarle proprie speranze e la propria lotta da soli. L’età dell’inquietudine si è trasformata in quella dell’egoismo, della diffidenza.
Anche l’antagonismo non è più lo stesso, per anni si è parlato di un conflitto senza classi, perché si pensava che il capitalismo avesse temperato e arrotondato i confini dell’iniquità, almeno nei paesi del benessere. Ma quello, come ricordava oggi il Simplicissimus era il capitalismo industriale, costretto a integrare un po’ di funzionale qualità nel suo contesto e nel suo disegno di crescita. Il capitalismo astratto aereo e intangibile della finanziarizzazione ha reso concreto il precipizio di povertà economica e sociale di interi paesi e di immense geografie sociali all’interno di nazioni investite dalla sua illusoria ricchezza per i posteri rivelatasi una miseria attuale e futura.
Mi torna alla mente un vecchio libro caro a Dahrendorf . Il pessimismo culturale come pericolo politico, si chiamava, era di Fritz Stern e metteva in guardia, che momenti come questi sono l’anticamera di fascismo e totalitarismo. Credo che avesse ragione, credo che sia obbligatorio vedere con occhi spietati, ma altrettanto obbligatorio coltivare speranza. Siamo una società aperta nella quale ci vogliono rinchiudere dietro muri alzati dal ricatto della necessità. Abbattiamoli per rifare posto ai diritti, alla ricchezza non espropriabile della libertà.
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Anna Lombroso per il Simplicissimus
In un prolungamento torrido dell’estate Unioncamere annuncia un torrido autunno: se l’emorragia dei posti di lavoro registra un rallentamento, il saldo a fine 2011 per le imprese con almeno un dipendente (circa 1,5 milioni) mostra ancora il segno meno: 88mila i posti in uscita pari a un calo dell’occupazione dipendente dello 0,7%. Va peggio per il lavoro nelle piccole e medie imprese e particolarmente penalizzato sarà il Sud: nel 2010 il saldo negativo era stato di 178mila unità, -1,5%. Peggio ancora era andata nel 2009, anno clou della crisi: 213.000 i posti bruciati, pari a -1,9%. Per il settore industriale a fine 2011 è attesa una perdita di quasi 59mila unità (-1,2%); meglio i servizi che dovrebbero fermarsi a quota -29mila unità (-0,4%). Crollo invece per le imprese delle costruzioni (quasi 29mila posti in meno). Nei servizi, l’unico settore che arriva a perdere un punto percentuale è relativo agli alberghi e ristoranti, mentre i tassi di variazione degli altri comparti sono compresi tra il -0,7% (servizi alle imprese) e il -0,2% (commercio al dettaglio).
Affacciata alla finestra sul cortile sento un silenzio svogliato. Dove saranno tutti? Già a aprire un chiosco nell’isoletta caraibica? Una pizzeria a Cuba? Quando il premier e i suoi noncuranti ministri xenofobi parlavano di flussi epocali e piaghe bibliche sottovalutavano un risvolto inquietante della crisi: la crisi dell’emigrazione, il problema del lavoro in un occidente senza lavoro. Dove andranno a cercare fortuna i figli viziati nati dalla parte “giusta” di un mondo sempre più ingiusto, che credevano di aver vinto il premio della lotteria naturale? Si, come sarà il lavoro della crisi nella crisi del lavoro? E che ne sarà di quelli che credevano di essere i vincenti della globalizzazione, chiusi nell’enclave dell’egoismo, del profitto e dell’accumulazione, che hanno mantenuto in stato di servitù e sommersione interi territori e ora cercano di riguadagnare il vantaggio perduto e il privilegio compromesso?
Nuove povertà fanno irruzione e come al solito non ci sono avvisaglie di un’organizzazione degli svantaggiati vecchi e nuovi nella corsa globale. È possibile che vari segmenti di povertà e disperazione si muovano disordinatamente, ma incrociandosi più in Internet che sulla terra. La disintegrazione e la demoralizzazione, non solo come “malinconia” per la perdita di benessere ma come erosione di un ethos collettivo, fanno prevedere tremendi sviluppi. L’individualizzazione ad esempio. Eravamo abituati in tempi di conflitti sociali a pensare ai sindacati e fare conto sui partiti della sinistra. Ma questi entravano in campo quando molti individui contemporaneamente e per gli stessi motivi si accorgevano che era impossibile realizzarle proprie speranze e la propria lotta da soli. L’età dell’inquietudine si è trasformata in quella dell’egoismo, della diffidenza.
Anche l’antagonismo non è più lo stesso, per anni si è parlato di un conflitto senza classi, perché si pensava che il capitalismo avesse temperato e arrotondato i confini dell’iniquità, almeno nei paesi del benessere. Ma quello, come ricordava oggi il Simplicissimus era il capitalismo industriale, costretto a integrare un po’ di funzionale qualità nel suo contesto e nel suo disegno di crescita. Il capitalismo astratto aereo e intangibile della finanziarizzazione ha reso concreto il precipizio di povertà economica e sociale di interi paesi e di immense geografie sociali all’interno di nazioni investite dalla sua illusoria ricchezza per i posteri rivelatasi una miseria attuale e futura.
Mi torna alla mente un vecchio libro caro a Dahrendorf . Il pessimismo culturale come pericolo politico, si chiamava, era di Fritz Stern e metteva in guardia, che momenti come questi sono l’anticamera di fascismo e totalitarismo. Credo che avesse ragione, credo che sia obbligatorio vedere con occhi spietati, ma altrettanto obbligatorio coltivare speranza. Siamo una società aperta nella quale ci vogliono rinchiudere dietro muri alzati dal ricatto della necessità. Abbattiamoli per rifare posto ai diritti, alla ricchezza non espropriabile della libertà.
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