Perché un popolo superato il livello massimo di sopportazione nei confronti di un governo, ritenuto inefficiente e iniquo, non può rimuoverlo subendone, invece, la violenza repressiva o le mille diavolerie dilatorie del leader di turno e della sua corte ruffiana, per tenerlo in vita?
Perché la vita e gli interessi di uno o di pochi devono prevalere su quelli di milioni di altri spacciati per il “bene” dello Stato?
Perché le istituzioni devono prevalere su chi le ha istituite senza piegarsi e adattarsi, invece, prontamente, alle istanze profonde di cambiamento dei cittadini?
Domande che ci si pone e ci si continuerà a porre in ogni tempo e in ogni paese, soprattutto in quelli che hanno visto nascere regimi dittatoriali e liberticidi: come in Nord Africa, di recente.
Premesso che una società civile non può realizzare le sue finalità senza istituzioni solide ed efficienti; premesso che la volontà dei cittadini da considerare non può che riferirsi a una larga parte di essi, superiore alla maggioranza della popolazione votante, mi sembra ora più che mai necessario che ogni paese civile codifichi la possibilità di rimuovere in tempi ristretti e per gravi ragioni un governo in carica attraverso un pronunciamento popolare.
La tutela è duplice, garantendo la comunità sia contro gli abusi e le inefficienze del potere in carica, sia contro la volontà soverchiante di un gruppo ristretto di persone. In alcuni casi potrebbe rendersi necessario un presidio esterno con forze militari di pace, per il corretto svolgimento del referendum e dell’informazione pubblica.
Nel nostro Paese, ad esempio, il referendum è previsto soltanto per ”deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.” (art. 75 Costituzione).
Urge una nuova stagione di politica internazionale, con la previsione pattizia, tra Stati, di un istituto di salvaguardia della democrazia interna. Certo, non solo questo, pensando alle non meno urgenti iniziative di solidarietà e di sostegno ai paesi poveri. Il principio dell’auto determinazione dei popoli, che non consente ingerenze di altri Stati nella politica interna di un paese, dovrebbe dunque anche garantire la concreta libertà e autonomia delle comunità, prioritariamente rispetto a quelle degli organismi che le rappresentano. La sofferenza di un Paese, la sua instabilità politica ed economica sono un danno per l’intera comunità internazionale, legata a esso da rapporti umani (familiari, di lavoro e di emigrazione) prima che commerciali. Non vorremmo più assistere nemmeno da lontano, impotenti, a situazioni raccapriccianti di morte e di follia omicida come quella di questi giorni in Libia.
Se ci fosse stata per la popolazione libica una vera libertà di auto determinazione, la dittatura non sarebbe forse durata quarant’anni, evitandosi stragi e tragedie insanabili.
Una riflessione che non può non estendersi, per alcuni aspetti, anche alla situazione italiana.
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