di Francesca Tabloni
A tre anni e mezzo dalla rivoluzione che depose il regime quarantennale di Mu’ammar Gheddafi, la Libia è sprofondata nuovamente in una crisi dalla quale non sembra trovare una via d’uscita. Ancora gravemente destabilizzata, incapace di fornire una via politica pacifica alla transizione e di dar vita a istituzioni forti e affidabili, il Paese è diviso in una miriade di entità diverse in lotta fra loro ma accomunate dall’obiettivo di guadagnare una certa posizione di potere nel nuovo corso libico. Gli eventi recenti non rassicurano affatto le autorità nazionali e, soprattutto, la comunità internazionale incapace di intraprendere un percorso comune condiviso e in grado di riunire sotto un’unica bandiera le anime frammentate di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. La totale assenza di ordine pubblico, inoltre, ha alimentato e continua a favorire la crescita e la diffusione di fenomeni collaterali, alcuni dei quali criminali, come il banditismo e il terrorismo.
Le elezioni – Nel generale clima di insicurezza e ingovernabilità, la Libia il 26 giugno è andata alle urne per la terza elezione legislativa dalle rivolte della cosiddetta “Primavera Araba” del 2011 per eleggere i 200 membri della Camera dei Rappresentanti, ossia l’organo unicamerale deputato a sostituire il vecchio Congresso Generale Nazionale nei lavori di costruzione e rafforzamento delle istituzioni nazionali. L’affluenza alle urne è stata al di sotto delle attese: solo 1,5 milioni si è presentato ai seggi per votare, di cui 600.000 donne. Inoltre molte tribù nel sud-ovest della Libia, come gli Amazigh, i Tobu e i Tuareg hanno boicottato il voto a causa della scarsa rappresentanza parlamentare loro concessa.
L’Alta Commissione per le Elezioni Nazionali ha diffuso il 23 luglio i risultati definitivi delle elezioni che dovrebbero aver visto una netta affermazione delle forze laiche e liberali su quelle islamiche (accertate intorno alle 30 unità). Come nel 2012, rimane infatti l’incognita dei candidati indipendenti che in sede di discussione parlamentare potrebbero vedere dei cambi di fronte repentini dall’una o dall’altra parte lasciando così il Paese nella medesima situazione di paralisi politico-istituzionale.
A rendere plausibile un tale scenario pesano sia la questione della legge elettorale sia l’assenza di politica da parte delle istituzioni. Se nel 2012 la suddivisione dei seggi era in quote proporzionali tra forze politiche e candidati indipendenti (su 200 posti, la proporzione era 80-120), nel 2014 non esiste questa distinzione, in quanto tutti i candidati si sono presentati su base del tutto autonoma. Una legge creata nel tentativo di limitare una possibile affermazione della Fratellanza Musulmana libica, meno radicata sul territorio rispetto ad altre sue emanazioni nello stesso contesto regionale (si vedano appunto l’Egitto o la Giordania), ma anche per soddisfare le varie aspirazioni clanico-tribali presenti nel Paese. Allo stesso tempo, una legge elettorale che vieta o che comunque non prevede formazioni politiche dovrebbe rendere l’iter legislativo più lento e meno efficace decretando ancora una volta uno stallo politico e istituzionale che non permetterà alcun progresso reale nella lunga transizione post-gheddafiana. Una situazione di anarchia istituzionale alla quale bisogna aggiungere il problema della rappresentanza politica: le forze islamiste che controllano il Congresso Nazionale di Tripoli non riconoscono l’attuale Parlamento insediatosi a Tobruq e di fatto continua a riunirsi clandestinamente nella capitale tripolitana. Una sfida di legittimità politica lanciata al punto tale da designare un proprio Premier, Omar al-Hasi, e un proprio governo di “salvezza nazionale” in aperto contrasto con quello che si deve ancora insediare nella Camera dei Rappresentati di Tobruq [1].
In questo caos la Libia è oggi assimilabile ad un failed state nel quale le istituzioni non hanno alcun potere reale e non sono quindi in grado neanche lontanamente di garantire la sicurezza minima in un Paese che vive sotto il ricatto delle armi delle centinaia di milizie ribelli e del terrorismo islamista che si sta rapidamente radicando su tutto il territorio.
Il problema sicurezza – I nuovi membri eletti avrebbero dovuto tenere il 4 agosto la prima riunione del nuovo Parlamento a Bengasi, capitale della Cirenaica in rivolta. L’intento dello spostamento di sede era quello di accondiscendere le richieste locali di un minore centralismo tripolitano. La città però è da tempo al centro di una spirale di violenze alle quali si sono aggiunti i continui scontri tra i gruppi islamisti/jihadisti e le truppe del generale dissidente Khalifa Haftar, rendendo la città orientale instabile e insicura quanto e più di Tripoli. Sulla base di ciò le autorità libiche hanno provveduto nuovamente a spostare la sede del Parlamento andando a Tobruq, città a pochi chilometri dal confine egiziano. Una scelta non casuale e dettata anche dalla montante preoccupazione egiziana per l’aggravarsi della crisi libica.
Il caos che regna nel Paese preoccupa non poco i vicini nordafricani (ad eccezione del Marocco geograficamente lontano) che il 25 agosto scorso si sono riuniti in un summit [2] al Cairo per definire una strategia comune di contenimento della minaccia libica. Tra questi i più preoccupati rimangono Algeria ed Egitto che condividono con la Libia un lungo confine e problemi di sicurezza derivanti da traffici illeciti (uomini, armi e droga) e infiltrazioni jihadiste lungo le rispettive frontiere. Proprio l’Egitto, accusato al pari degli Emirati Arabi Uniti di essere il responsabile dei raid aerei in corso a Tripoli [3], teme un possibile effetto spill over delle violenze sul proprio territorio. Infatti, gli sconfinamenti delle milizie libiche nel Deserto Orientale egiziano stanno divenendo sempre più frequenti così come gli attacchi di frontiera alle forze di sicurezza del Cairo – come quello del 19 luglio a Farafra [4] in cui sono morte 22 guardie egiziane o quello del 6 agosto nei pressi di Marsa Matrouq [5] dove sono state uccise 5 persone – impegnate in un difficile controllo delle frontiere. Sebbene ufficialmente sia il Presidente Abdel Fattah al-Sisi sia il Ministro degli Esteri Sameh Shoukry abbiano ribadito la contrarietà dell’Egitto «ad ogni ingerenza negli affari interni della Libia», sono in molti a temere un possibile coinvolgimento del Cairo nelle questioni interne a Tripoli. Ad alimentare queste speculazioni, soprattutto di stampa, vi sarebbe una dichiarazione rilasciata all’agenzia stampa MENA dall’ex Ministro degli Esteri egiziano e già Segretario Generale della Lega Araba Amr Moussa nella quale affermava che Il Cairo potrebbe essere costretto ad esercitare il proprio «diritto all’autodifesa» in Libia se dovessero continuare a sorgere tanti emirati islamici o “mini-Stati” sul modello di quello proclamato a Bengasi [6] lo scorso 31 luglio, in quanto rappresenterebbero una «minaccia diretta» per la sicurezza nazionale egiziana [7].
Le preoccupazioni egiziane sono quindi solo il segnale del pericolo crescente che si respira in Libia. Da diversi mesi, infatti, il governo libico non ha alcun controllo diretto del proprio territorio, nel quale milizie e gruppi paramilitari formatisi durante gli ultimi momenti del regime di Mu’ammar Gheddafi hanno col tempo elaborato un intricato e complesso network di alleanze per il controllo di un Paese che ora si presenta molto diversificato. Il complicato patchwork di tribù e alleanze regionali che ha sempre caratterizzato la Libia nel corso della sua storia è andato degenerando durante le lotte di liberazione in infiniti gruppi locali che hanno a loro volta intessuto diverse relazioni con il governo centrale a seconda delle loro agende. Molte milizie si sono organizzate su base regionale, difendendo i propri interessi e le proprie città. I loro armamenti, razziati dagli arsenali di Gheddafi durante la lotta per la sua deposizione, e i loro soldati superano di gran numero le cifre di cui ha a disposizione l’Esercito Libico Nazionale, unica forza militare ufficiale del Paese da poco formatasi e ancora sotto training tecnico occidentale. Tuttavia anche questa forza non è di fatto in grado di disarmare le milizie.
Fonte: Atlantic CouncilLe milizie libiche – Procedendo da Ovest ad Est, tra i gruppi armati insediatisi nelle vicinanze di Tripoli. Tra queste le milizie al-Qaaqaa e al-Sawaiq sono tra quelle maggiormente armate e più preparate. Formatesi nella città di Zintan, esse hanno preso possesso della capitale controllando diversi siti militari strategici. Dal 13 luglio queste milizie vicine alle forze laiche di Mahmoud Jibril, leader dell’Alleanza delle Forze Nazionali, sono impegnate in combattimenti serrati con le truppe rivali di Misurata, le quali avrebbero preso il possesso dell’aeroporto internazionale della città [8]. Ufficialmente sotto controllo del Ministero della Difesa, sono di fatto ostili ai gruppi islamici e si considerano il braccio armato dei partiti laici libici. Nell’area urbana di Tripoli si sono verificati diversi scontri armati tra milizie – soprattutto nei pressi dell’aeroporto, motivo che ha portato alla sua chiusura – che confermano l’elevato livello di rischio nel Paese e l’estrema fragilità della situazione della sicurezza che perdura per l’impossibilità per le forze dell’ordine governative di garantire un effettivo controllo del territorio.
Sulla costa, le milizie della città di Misurata, ormai diventata una vera e propria città-Stato, sono anch’esse considerate tra le meglio armate in questo momento, non hanno un’agenda politica definita e combattono secondo gli interessi della propria città. Stessa logica è applicata dalle milizie presenti nella Cirenaica, formate da sostenitori del governo federale, che combattono per l’autonomia della propria regione dalla Libia. La situazione in Cirenaica è progressivamente deteriorata da dicembre 2013, da quando si sono verificati diversi attentati suicidi e sequestri di cittadini occidentali.
Ma c’è di più, le principali forze paramilitari presenti nel Paese si trovano a Bengasi dove da maggio scorso le due milizie islamiste di Ansar al-Sharia (Derna e Bengasi) [9] e dei Martiri del 17 Febbraio combattono contro l’esercito dell’ex generale Khalifa Haftar. Ansar al-Sharia e i Martiri del 17 Febbraio non sono certamente gli unici gruppi islamisti presenti nel Paese, ma sono i più influenti e continuano a raccogliere e ad addestrare jihadisti. Non si riconoscono infatti nel sistema politico attuale e combattono per instaurare uno Stato Islamico in Libia. In questo complicato intreccio di potere e territorio il ruolo del governo centrale è pressoché nullo e la Libia è divisa tra una fascia costiera estremamente frastagliata di milizie e scontri ed un territorio interno in piena anarchia che vede la fuga delle tribù beduine verso altri Paesi. È una situazione di incertezza politica che perdura dalla morte di Mu’ammar Gheddafi ma che ha visto nell’ultimo anno un particolare inasprirsi delle violenze, durante il quale luglio è stato il mese che ha presentato il numero più alto di morti. Secondo il Libya Body Count, nel 2014 sono state uccise poco meno di 1.200 persone, di cui 411 nell’ultimo mese soltanto.
Fonte: Libya Body Count Fonte: Libya Body Count
Operazione Dignità – In tale contesto si inscrive dunquel’Operazione Dignità, un’azione militare iniziata il 16 maggio scorso nell’Est del Paese dal generale reietto Khalifa Haftar, senza l’appoggio del governo di Tripoli. In un messaggio televisivo il militare ha dichiarato guerra ai militanti islamici e ha chiarito i suoi progetti: sradicare il terrorismo dalla Libia. Secondo il governo in carica, in realtà Haftar sta tentando un colpo di Stato, puntando a prendere il controllo di regione in regione tramite la lotta armata e l’alleanza con altre milizie, e dovrebbe essere arrestato.
La debolezza del governo libico, la proliferazione delle armi e le minacce separatiste hanno portato alla ribalta un personaggio chiacchierato come Haftar che si presenta come uomo forte e salvatore della patria. Nella sua intervista rilasciata al giornale egiziano al-Masri al-Youm [10] racconta di come un tempo vicino a Gheddafi, Haftar si unì in seguito a un movimento di opposizione per poi auto esiliarsi negli Stati Uniti, dove ha vissuto per vent’anni e da dove, nel 2011, è tornato per guidare le forze ribelli. Data la sua residenza in Virginia, vicina ai quartieri generali della CIA, è stato accusato da molti di essere in realtà una pedina di Washington e un loro agente, accuse a cui lui ha sempre risposto attaccando i Fratelli Musulmani che, a suo dire, sarebbero i soli promotori di queste bugie.
All’epoca del suo ritorno in Libia nel 2011, dopo essersi adoperato per la caduta del regime di Gheddafi, si ritira a vita privata, ma nel giro di pochi mesi la situazione del proprio Paese non si schiarisce, vede la sua nazione affondare e la corruzione ed il nepotismo dilagare. Decide quindi di creare un esercito di fedelissimi e di affrontare le milizie islamiche nel Nord-Est del Paese, lanciando il 14 febbraio un primo tentativo di golpe miseramente fallito [11], per poi riprovarci con più fortuna pochi mesi più tardi. Con l’Operazione Dignità, Haftar presenta il proprio esercito come una tutela al caos imperante, una forma di tutela del Paese nel periodo di transizione fino alle elezioni del 26 giugno e anche dopo, se fosse stato necessario.
Parallelamente anche gli islamisti si organizzano con un obiettivo di più ampio respiro che riguarda le sorti non solo della difesa del Paese da una possibile contro-rivoluzione sullo stile egiziano ma e che si pone come scopi anche la sopravvivenza di una Libia quale unico luogo sicuro per la proliferazione dei gruppi salafiti e jihadisti e per la diffusione dell’Islam politico nella regione. Così dopo aver lanciato una risposta militare, le milizie hanno deciso di organizzarsi, dietro incoraggiamento turco-qatarino, in un unico fronte compatto lanciando l’operazione Fajr Libya (Alba libica) [12]. Questo ombrello islamista in funzione anti-Haftar, e vicino alle Ansar al-Sharia e alla milizia di Misurata, decide di portare avanti le proprie battaglie non solo in Cirenaica ma anche a Tripoli con l’obiettivo dichiarato di controllare l’aeroporto internazionale della capitale. Maggiori epicentri degli scontri sono infatti Tripoli, Bengasi, Derna e in generale quasi tutta la Cirenaica.
Localizzazione degli scontri – Fonte: ISPIA confrontarsi sul campo sono le forze di Haftar, riunite principalmente nelle milizie al-Saiqa, sotto il controllo del colonnello Wanis Abu Khamada e dell’influente capo tribù Ezzedin Wakwak che ha garantito ad Haftar il controllo e l’uso della base aerea di Benina. Contro di loro sono schierate tre milizie islamiche: i Martiri del Febbraio 17, guidati da Ismail al-Sallabi, le forze di Rafallah al-Sahati, guidati da Mohamad al-Gharabi, e, il gruppo più importante, le milizie di Ansar al-Sharia. La presenza di elementi pro- al-Qaeda, persino in lotta con i Fratelli Musulmani di ispirazione egiziana, costituisce un’ulteriore minaccia per la sicurezza per la derivazione terroristica che stanno assumendo i questi gruppi.
Già a fine luglio le milizie islamiche avevano occupato l’aeroporto internazionale di Tripoli, costringendolo alla chiusura mentre il 27 luglio un deposito di carburante ha preso fuoco nella capitale. Inoltre, il 30 luglio il quartier generale delle Forze speciali dell’esercito libico, principale base militare di Bengasi, è caduta in mano ai gruppi islamisti. Questi attacchi possono essere interpretati come una misura preventiva delle milizie islamiche che sono intenzionate a rimanere una della forze politiche principali nonostante la sconfitta alle elezioni e la crescente minaccia delle operazioni di Haftar. Il governo libico ha denunciato il rischio di una secessione nel Paese se gli scontri non si fermeranno.
Parallelamente alla guerra anche la situazione umanitaria è al collasso, con migliaia di libici ed egiziani (circa 700mila) in fuga dal Paese. L’agenzia di stampa tunisina TAP riporta che dal 1° agosto Tunisi ha dovuto chiudere il valico di confine con la Libia, quello di Ras Jedir, dopo che centinaia di egiziani in fuga dalle violenze hanno cercato di sfondare le barriere protettive. Un’azione che ha portato anche l’Algeria e l’Egitto a rafforzare la propria presenza lungo i confini.
Verso il fallimento di un progetto – Alla luce dei tentativi di Haftar di mettersi in contatto con le forze egiziane di al-Sisi per fare fronte comune nella lotta contro i Fratelli Musulmani – riconosciuti come organizzazione terroristica dall’Egitto e da tutti i Paesi del Golfo – e contro tutti i gruppi islamisti in generale su territorio libico, non stupirebbe in un prossimo futuro una degenerazione libica all’ombra della Sfinge, ovvero repressione dura contro ogni milizia e/o movimento di radice islamica. Ma il governo è debole e le sue mosse restano per ora sollo sulla carta, come l’approvazione il 13 agosto all’unanimità di un ordine di scioglimento di tutte le formazioni armate e delle milizie irregolari che imperversano nel Paese. È facile intuire come questo provvedimento non basterà a placare lo scenario di violenza e di caos aggravatosi negli ultimi mesi e che ha ormai coinvolto pienamente anche Tripoli. In una situazione come quella attuale il rischio paralisi è ormai una realtà così come il persistere di violenze che potrebbero nel breve-medio periodo portare ad un peggioramento delle condizioni esogene ed endogene alla stessa Libia. Pertanto un aggravamento dell’attuale contesto di guerra civile potrebbe portare anche ad una sorta di risposta militare congiunta dei Paesi dell’area basata su un loro coinvolgimento in un nuovo conflitto apparentemente di portata locale.
* Francesca Tabloni è dottoressa in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia e dell’Africa (Università di Bologna)
[1] Libya’s ex-parliament reconvenes, appoints Omar al-Hasi as PM, in “Reuters”, 25/08/2014.
[2] North African ministers in Cairo for Libya crisis talks, in “Ahramonline”, 25/08/2014.
[3] Marilyne DUMAS, Libye: les combats armés entrent en politique, in “Le Figaro”, 24/08/2014.
[4] Aya NADER, Egypt mourns death of 22 soldiers following militant attack, in “The Daily News Egypt”, 20/07/2014.
[5] At least nine killed in shootout in Egyptian coastal town, in “Reuters Africa”, 06/08/2014.
[6] Il 29 luglio le milizie islamiste di Ansar al-Sharia annunciano di aver preso il controllo definitivo, dopo giorni di combattimenti, del quartier generale delle forze speciali libiche della brigata al-Saiqa, di stanza a Bengasi. All’indomani della conquista dell’infrastruttura strategica, Mohamed al-Zahawi, un rappresentante ufficiale del gruppo armato, ha rivendicato ad una radio locale la nascita dell’emirato islamico di Bengasi. Benghazi declared ‘Islamic emirate’ by militants, in “Al-Arabiya English”, 31/07/2014.
[7] Amr Moussa hints at Egypt incursion into Libya, in “Al-Arabiya English”, 05/08/2014.
[8] Dal 18 agosto si sono registrati a Tripoli raid aerei ignoti contro le milizie islamiste di Misurata impegnate a fronteggiare quelle rivali di Zintan per il controllo dell’aeroporto internazionale della capitale. Secondo la stampa nordafricana i responsabili sarebbero Egitto ed Emirati Arabi Uniti, i quali hanno smentito le accuse a loro carico. Ajnadin MUSTAFA, Tripoli bombings not carried out by Libyan aircraft: General Chief of Staff, in “Libya Herald”, 18/08/2014.
[9] Il 10 gennaio 2014, il Dipartimento di Stato americano ha designato come organizzazione terroriste Ansar al-Sharia Tunisia e le due Ansar al-Sharia libiche, Derna e Bengasi. Terrorist Designations of Three Ansar al-Shari’a Organizations and Leaders, US State Department.
[10] http://m.almasryalyoum.com/news/details/456525.
[11] Ghaith SHENNIB, Libyan PM says government safe after army statement, in “Reuters”, 14/02/2014.
[12] Libyan Dawn: Map of allies and enemies, in “Al-Arabiya Institute for Studies”, 25/08/2014.
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