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La “lista della spesa” di Cottarelli, economo (troppo?…) zelante

Creato il 03 giugno 2015 da Libera E Forte @liberaeforte

carlo-cottarelli

Nel libro ‘La lista della spesa’, Carlo Cottarelli spiega “in termini semplici ma precisi, quanto si spende, come si spende, quanto è già stato fatto e quanto resta da fare” con un’obiettività tesa a smontare tutte le “leggende metropolitane” sulla spesa pubblica.

Nominato nel 2013 da Enrico Letta commissario straordinario per la Revisione della spesa pubblica, Cottarelli ha portato avanti l’incarico fino all’ottobre del 2014, quando il governo Renzi ha deciso di riassegnarlo al Fondo monetario internazionale, di cui attualmente è uno dei direttori esecutivi.

Il libro si apre con alcuni interrogativi atti a definire i termini della questione. Il primo: “Chi e quanto si spende?” La spesa pubblica nel 2013 in base ai dati Istat è stata di 818 miliardi; considerando la così detta “spesa primaria”, ovvero quella al netto degli interessi, queste sono le cifre: gli enti previdenziali (primo tra tutti l’Inps) sono i responsabili di quasi metà della spesa (320 miliardi, 43 per cento del totale); i motivi: pensioni, trasferimenti alle famiglie per varie forme di assistenza, welfare; seguono le amministrazioni centrali dello Stato (ministeri e vari enti pubblici) con 190 miliardi, un quarto della spesa; le regioni, con i loro 138 miliardi (di cui 109 sono assegnati alla spesa sanitaria), occupano in realtà meno di un quinto del totale; i comuni (61 miliardi) costituiscono l’otto per cento (61 miliardi), le province (9 miliardi) poco più dell’un per cento. I restanti 21 miliardi sono spesi da enti classificati dall’Istat come “locali” (università, enti controllati da comuni, province e regioni).

Per cosa si spende? Cottarelli distingue tre tipologie: c’è “lo ‘Stato che acquista’, cioè che spende per comprare beni e servizi (carta, computer, edifici eccetera), che consuma direttamente nella produzione di servizi pubblici”, per un totale di 169 miliardi, di cui 131 sono spese correnti e solo 38 miliardi sono investimenti. Poi abbiamo “lo ‘stato che impiega’, che spende 165 miliardi per stipendi dei dipendenti pubblici”. Infine, “lo ‘stato che stacca assegni’, che traferisce soldi a famiglie, imprese ed estero. Il totale ammonta a circa 380 miliardi, più della metà della spesa primaria”, di cui la maggior parte va alle famiglie.

L’analisi di Cottarelli, in cui il livello di spesa italiana viene confrontato con alcuni benchamrk europei, giunge alla conclusione che “la spesa pubblica italiana, nonostante i tagli realizzati dal 2010, eccede quello che ci possiamo permettere (…) di almeno il 2 e mezzo per cento del Pil, ovvero 40 miliardi”. L’espressione “quello che ci possiamo permettere” indica una situazione limitata da diversi fattori, primo tra cui il debito pubblico elevatissimo, che fa sì che la spesa per gli interessi in Italia sia molto più alta di quella degli altri paesi.

Nel proseguire il discorso, Cottarelli fa una riflessione che riportiamo per intero perché a nostro avviso centra uno dei punti cruciali della questione: “Assumendo che la spesa per pensioni sia poco comprimibile, spendiamo ‘troppo’ in quasi tutti i settori, con l’eccezione di cultura e istruzione. Questo risultato, fra l’altro, spiega perché le proposte da me avanzate non prevedevano tagli per cultura e istruzione. Questo non vuol dire che non ci sia da risparmiare anche in queste aree, ma se si risparmia si dovrebbe reinvestire nel settore stesso. Fra l’altro, studi condotti dal dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, che ho diretto fino al 2013, indicavano che la spesa per l’istruzione è quella che fa più aumentare il reddito di un paese nel medio periodo”.

Dall’analisi della situazione di partenza risultano alcuni dati: innanzitutto, “le spese sono state già ridotte in modo significativo a partire dal 2010”. È ovvio poi che “tagliare la spesa fa sempre male a qualcuno”, considerando che ogni operazione di efficientamento va a colpire la spesa per beni e servizi, per il personale pubblico o i trasferimenti a famiglie e imprese. Inoltre, “Una parte molto significativa delle spese è costituita da esborsi per pensioni e sanità, voci politicamente molto delicate da affrontare”. La spesa, continua l’autore, va tagliata in modo mirato, facendo attenzione a non colpire le amministrazioni già virtuose ma quelle che sprecano, il che – si puntualizza – non è facile.

L’ultima considerazione della parte introduttiva è di tipo metodologico: “Anche quando si è disposti a ridurre le vecchie spese – afferma Cottarelli – le nuove iniziative non sono sottoposte a un vaglio adeguato: come per la tela di Penelope, c’è talvolta la tendenza a tagliare da un lato per spendere dall’altro. Forse perché non si è mai definito in modo chiaro – in termini di principi generali – che cosa si ritiene appropriato che il Pubblico debba fare rispetto a quello che fa il Privato”.

Nel libro ci sono molti riferimenti alla Revisione della spesa condotta dal Commissario durante il suo mandato. Cottarelli ha lavorato su due livelli: uno costituito da 25 gruppi di lavoro guidati da rappresentanti della pubblica amministrazione (8 gruppi tematici “orizzontali” e 17 “verticali” per le diverse componenti della Pa: i 13 ministeri, la presidenza del Consiglio, regioni, province e comuni). Un secondo livello era costituito da un “gruppo di base” formato dal commissario stesso e dal suo staff. Una decisione che si è rivelata lungimirante, visto che alla fine “se i gruppi di lavoro ‘orizzontali’ hanno prodotto qualche proposta di riforma, le proposte avanzate dai gruppi verticali sono state, con qualche eccezione, limitate. Cinque gruppi di lavoro non hanno completato nemmeno i lavori, anche per la caduta del governo Letta”. I rapporti dei 25 gruppi di lavoro creati da Cottarelli sono stati pubblicati a inizio aprile 2015 e sono visionabili sul sito revisionedellaspesa.gov.it insieme alle proposte per la Revisione della spesa pubblica (2014-2016) del commissario stesso.

Ciò che risalta dall’analisi è il numero impressionante di sovrapposizioni a livello burocratico-amministrativo che non solo causano inefficienze, ma una inutile e dannosa ripetizione di funzioni, dati, lavori. Qualche esempio: tra sedi dei ministeri e uffici di enti che fanno capo ai ministri nel 2012 sono stati registrati quasi diecimila locali. Le forze di polizia, 320mila persone in totale, sono divise in apparati differenti che afferiscono a cinque ministeri, ognuno con procedure proprie e separate. L’Automobile club d’Italia gestisce il Pubblico registro automobilistico che contiene un “sottoinsieme” dei dati presenti nell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Archivi separati, gestioni separate, spese separate.

Emblematica è la questione delle auto blu: nel 2014 ne sono state censite 5727, se aggiungiamo quelle adibite ad altre attività (trasporto di materiale, ispezioni eccetera) arriviamo a quasi 54mila. Nel Regno Unito i singoli ministeri non beneficiano di auto blu: “esiste un car pool (di circa 80-90 macchine per l’intera amministrazione centrale), che può essere usato solo da ministri e funzionari in grado più elevato” per motivi di servizio, e che i politici non possono usare per partecipare a eventi politici. In Germania la situazione non cambia di molto, e in generale “non è normale negli altri paesi utilizzare auto di servizio con autista per spostarsi da una parte all’altra della città, anche per motivi di servizio. Si va a piedi, si usa il trasporto pubblico, o si usano taxi convenzionati”. La risposta che Cottarelli riceveva quando faceva presente questi dati nei corridoi dei ministeri romani, era che negli altri paesi i trasporti pubblici funzionano! Ne consegue che i normali cittadini devono subire i vari malfunzionamenti, a differenza degli “eletti” a cui spettano trattamenti di favore (autoassegnati).

L’autore affronta numerose questioni: le spese militari, il “complicato mosaico” della Pubblica amministrazione, le spese dei comuni, il passaggio dal capitalismo di Stato al capitalismo degli enti locali, l’importanza di una normativa che determini il comportamento e la retribuzione dei dipendenti pubblici – “Tre milioni di lavoratori (e di buste paga)”; a metà libro dedica un intermezzo alle “mancette”, ovvero “quegli stanziamenti di risorse contenuti in leggi e leggine per importi modesti che vanno a beneficio di interessi locali, piccoli enti pubblici e privati, piccole iniziative” e che “attirano l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica perché è difficile motivarle con un interesse generale”.

Poi prosegue con i costi della politica; anche qui è utile fare alcuni raffronti, ovviamente tenendo conto delle debite differenze: la spesa di Camera e Senato è di circa un miliardo e mezzo (i due terzi sono per la Camera), mentre in Inghilterra la House of Commons e la House of Lords costano sui 500 milioni di sterline (circa 675 milioni di euro), ovvero meno della metà rispetto al nostro Parlamento. In Germania il costo è stimato intorno ai 670 milioni di euro, mentre in Francia siamo sui 900 milioni, “anche questo più basso pur escludendo il costo delle pensioni”. Anche la spesa del Quirinale, di circa 250 milioni e costituita per la maggior parte da stipendi e pensioni (ci verrebbe da dire “prebende”), risulta nettamente al di sopra della media.

Gli ultimi capitoli sono dedicati alle sovvenzioni alle imprese e alla spesa sanitaria e previdenziale. La conclusione, sobria e neutra, è in linea con lo stile rigoroso dell’intero libro – il che, detto per inciso, fa onore a un uomo chiamato per assolvere a un compito ingrato e messo alla porta ancora prima di avere finito il lavoro: occorre “rendere più istituzionale il processo di revisione della spesa seguendo approcci di performance budgeting simili a quelli degli altri paesi”, una istituzionalizzazione “non ancora parte formale del programma di questo governo” anche se ci sono “collegamenti tra una piena introduzione del performance budgeting e la riforma della pubblica amministrazione”, per la quale esiste una legge delega in Parlamento che include la riforma della dirigenza pubblica. Questa riforma “fornisce un’opportunità per rendere effettiva la riforma del bilancio dello stato del 2009”, che fino a ora è stata “abbastanza pro forma”, e per “l’introduzione di moderni strumenti di gestione della spesa pubblica basati sui risultati ottenuti”.

Del libro si apprezzano soprattutto la profondità e il rigore delle analisi e l’obiettività delle argomentazioni; dopo avere finito la lettura, ci è emerso il pensiero che queste considerazioni sarebbero dovute provenire da una persona rivestita di un incarico formale, il che avrebbe forse contribuito a riconferire un minimo di quella fiducia che le istituzioni in questo momento non mostrano di voler meritare.

Marco Cecchini


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