Titolo: La luna e i falò
Autore: Cesare Pavese
Editore: Einaudi
Anno: 1950 (Prima Ediz. Originale)
Nonostante l’esigua consistenza del volume, la lettura de La luna e i falò si presenta tutt’altro che semplice. Lo stile di Pavese è denso; la ricchezza delle figure retoriche, in particolare dell’anacoluto, obbligano spesso il lettore ad una rilettura più attenta del medesimo passo; i dialoghi tra i personaggi si alternano, spesso rapidamente, a momenti di riflessione intimistica. Lo stesso intreccio, caratterizzato dalla presenza di tre tempi narrativi differenti (il passato remoto, quello prossimo e il presente), è nuovamente un fattore che non interviene in aiuto del lettore. Pavese lo sapeva, così come lo stesso Einaudi (da sempre l’editore per eccellenza delle opere pavesiane): ecco perché il romanzo si presenta suddiviso in una miriade di capitoletti, di poche pagine ciascuno, che possano però orientare il lettore nella lettura. La trama stessa, pur non essendo di per sé complicata, acquista un notevole spessore, proprio grazie a quel sapiente rapporto tra fabula e intreccio, gestito in maniera a dir poco prodigiosa dall’autore. Il tempo del presente è quello che vede il protagonista Anguilla, un orfano ormai divenuto adulto, fare ritorno ai luoghi della campagna piemontese in cui era cresciuto. Il passato remoto consiste proprio nella rievocazione di questi luoghi, dei personaggi che li popolavano, e dei ricordi che l’io adulto conserva di sé bambino. Il passato prossimo, più recente, è invece quello del secondo conflitto mondiale, e delle ferite che esso ha lasciato negli uomini e nella terra che essi abitano. Il protagonista ha vissuto questi anni in America, ecco perché decide di lasciare all’amico di sempre, Nuto, il racconto di tali fatti, che si presenteranno in tutta la loro cruda e tragica realtà. Passato remoto, prossimo e presente si intersecano tra loro in maniera abilissima; Pavese trascina il lettore all’interno del suo mondo, facendogli assaporare con gusto odori, sapori e colori delle Langhe e portandolo nel contempo a riflettere su tematiche di portata universale. Il viaggio non è solo quello di Anguilla: il lettore stesso è chiamato a prender parte all’esperienza raccontata. Il tema della guerra è infatti solo un corollario, rispetto alla grande vicenda di un uomo, che il romanzo intende raccontarci. I luoghi citati trasudano storie: storie di case, di persone, di fatti accaduti in un tempo ormai inevitabilmente lontano. L’io adulto ricorda, ma fa ormai fatica a ritrovarsi. Il suo è lo sguardo di un uomo che ha conosciuto il mondo «al di là della strada che porta a Canelli» e, come tale, non può che presentarsi distaccato e disincantato. Se il ricordo è ancora possibile, la freddezza con cui viene raccontato, rende ormai visibile la distanza che intercorre tra esso e chi lo evoca. Tuttavia ciò non porta noi lettori a rimanere estranei alle vicende narrate: Pavese ci racconta il suo mondo, ed invita il lettore a prenderne parte. Lo stesso messaggio di speranza, che Pavese propone al termine del romanzo, attraverso il tentativo di Anguilla di offrire al giovane Cinto una prospettiva di vita migliore, assume una portata universale. Pavese non riuscì a farlo totalmente suo e si tolse la vita pochi mesi dopo la pubblicazione del romanzo stesso; noi lettori siamo invece chiamati ad accogliere tale invito alla felicità, in prospettiva di un futuro migliore.